martedì 18 ottobre 2011
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Indignati. Come suonava bene. Un po’ più che esasperati, più elegante di nauseati, meno minaccioso di arrabbiati. E con quel pizzico di disgusto che si può provare davanti allo scempio di qualcosa in cui si crede o si spera. Delusione, dispiacere, preoccupazione, ma guardando avanti. Protestare e camminare, rivendicare un futuro e provare a costruirlo. Così doveva e poteva essere. Così non è stato e quella parola provoca ora una sensazione di devastante malessere. Lo scempio c’è stato, ne abbiamo pieni gli occhi e la mente da troppe ore. Voluto, preparato, organizzato, nuovi dettagli emergono con ritmo incalzante. Prima, durante e dopo non sono mancati gli ambigui lanciatori di parole d’ordine devastanti quanto i sassi e le spranghe. E poi i generosi giustificatori, via radio o sui giornali, quelli per cui gli incidenti «è bene, istruttivo che ci siano stati», e gli irriducibili che ancor oggi argomentano come «attaccare le banche o gli uffici dei ministeri è un segnale politico», anche se forse non era il caso di spaccare una statua della Madonna... Già. In fondo un danno da poco. Hanno bruciato case, auto e una camionetta dei carabinieri, devastato banche e negozi, divelto pali e pavimentazioni: che sarà mai una statuetta mariana di gesso, e con tutti i crocifissi che si contano a Roma, se anche uno è stato sbrecciato… Simboli, ma più alla radice il cuore di una comunità. E sono immagini da guerra civile nei Paesi delle persecuzioni ai cristiani quelle che dalla Città Eterna hanno fatto il giro del mondo. Difficile segnare il confine tra vandalismo e stupidità, inevitabile ora indignarsi davvero. Ma proprio qui, forse, si è giocato un capitolo decisivo della partita. Qui una legittima protesta, con largo seguito popolare, è andata in cortocircuito con l’oltraggio a quelli che sono i più radicati tra i valori che fondano la convivenza del nostro popolo. ll malessere c’era, c’è, e l’Italia non fa eccezione. La crisi economica con le sue pesanti conseguenze sta mietendo le sue vittime, e offuscando le prospettive di futuro per tanti giovani. I figli di questo popolo, i nostri figli, ossessionati dalla mancanza di un lavoro, i più fortunati angosciati dalla precarietà, impauriti dalla voragine del debito e dalla scalata impossibile ai tetti pensionistici. Accanto a loro, chi il lavoro lo aveva e lo ha perso, e non ha più l’età per riproporsi o reinventarsi. E anziani impauriti, sulla soglia della povertà. Di fronte, la finanza internazionale, intenta a giocare le proprie partite sulla pelle di tutti e una classe politica più attenta alle beghe di cortile (quando va bene) che a cercare risposte credibili e capaci di gettare le fondamenta per una ricostruzione economica, morale e civile. Solo "bombe incendiarie" tra gli schieramenti e all’interno degli stessi, mentre la casa comune vacilla: ecco l’esempio. Ragioni per protestare, per chiedere una svolta ce ne sono a iosa. Ma anche per cercare le basi per un nuovo patto tra generazioni, tra cittadini e istituzioni, tra pubblico e privato. Chi ha "dirottato" la protesta romana è già in pista per replicare. Non ci si può sottrarre alle domande sugli strumenti, sul modo di rappresentare disagio e indignazione. Perché la furia distruttrice nichilista, per quanto minoritaria, non fa parte del nostro Dna, e solleticarla, salvo poi nascondersi dietro una politicamente corretta esecrazione, non può essere la risposta alla domanda di e sul futuro che tutti ci sentiamo urgere dentro. Già infuria la polemica sulla mancata prevenzione degli incidenti ma anche sulla repressione, su chi (nei palazzi o nelle piazze?) ha cercato o non ha invece evitato lo scontro e perché. Il tutto risulta, ahinoi, stucchevole e asfittico. Tanto è grande e grave la domanda tanto è desolante la mancanza di risposte adeguate. Ma il bisogno rimane e interpella tutti, ciascuno al proprio livello e con la propria responsabilità. Aprendo gli occhi, e i cuori, qua e là spiragli se ne vedono. Non prevalga chi vuol metterci una pietra sopra.
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