La forza dell’incontro. E mai carcere per i figliol prodighi
domenica 17 settembre 2023

Caro Marco Tarquinio, quando penso ad “Avvenire”, penso a tutto il lavoro di questi anni. Ti invio una foto vera e... celeste, che ho scattato a fine agosto per strada a Roma. Ero in bici, e ho visto questa persona mendicante e intenta a leggere “Avvenire”. Mi sono fermata e sono tornata indietro. Il tuo pensiero ha più volte illuminato e sostenuto il mio, miscredente e ribelle, non facendomi sentire sola. Non dimentico la gratitudine... e la manifesto così. Ciao.


Isa Traversi



Gentile Marco Tarquinio, sono ormai un lettore assiduo di “Avvenire” da un anno e mezzo. La guerra in Ucraina, nella sua tragicità, mi ha fatto riscoprire la voglia e l’impegno civile. E mi sono ritrovato nella visione e nella speranza che “Avvenire” porta nei suoi reportage, editoriali, commenti. Devo aggiungere però alla stima professionale del Direttore prima e dell’Editorialista adesso anche quella personale legata a un piccolo recente aneddoto. Quest’estate, in una delle passeggiate domenicali con la mia famiglia, mi è capitato di incrociarla in un bel luogo tra Toscana e Liguria (io ovviamente l’ho riconosciuta, anche perché è un volto noto): un po' più avanti rispetto a me e alla mia compagna c’era mio figlio che affrontava la passeggiata verso la vista panoramica correndo e, appunto, correndo le si è parato davanti e l’ha sfiorata. Lei sorridendo e, rivolgendosi a me, ha detto: «È un atleta!». Ecco questo breve commento da papà e da nonno, mi ha reso il professionista familiare e simpatico anche umanamente. Ho trovato una corrispondenza fra le parole che scrive e l’atteggiamento umano. E ho pensato come di questi tempi le parole siano sempre più importanti, anche poche, scarne, possono creare un ponte. Ciò che tragicamente manca in questo scenario di guerra. È nei silenzi che cresce l’odio. «Basta poco, che ce vò?», dice – in una celebre campagna per Amref – Giobbe Covatta.


Daniele Piccinini



Caro Marco Tarquinio,

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. (Lc 15,11-32)


Se padri come quello narrato da Gesù ci sono anche oggi e anche in Italia, certo non sono quelli che hanno il potere di scrivere o approvare leggi. Amore per i figli sì, ma solo per i propri, che, se commettono atti riprovevoli, non li hanno commessi, oppure non sono colpe o la colpa non è loro. Ma quando è il figlio di un altro... Prevenire è più difficile che punire, e forse crea meno consenso immediato; ma rimuove un dato gigantesco: qualunque adolescente o ragazzino commetta un crimine, è sempre anche la vittima di un contesto sociale e culturale, di una deresponsabilizzazione del mondo adulto. È così che si arriva a ridurre la scuola a centro di contenimento e correzione. Più di vent'anni fa, dal Ministero (allora della Pubblica Istruzione) fu lanciato il “Progetto Genitori”, ponendo una questione: educare i genitori perché abbandonino la domanda “Come va mio figlio?”, per passare a quella: “Dove vanno i nostri ragazzi?”. Quel “nostri” ci riconosce tutti responsabili. Ma oggi il governo, a quel “dove vanno i nostri ragazzi?” sdogana la risposta: anche in carcere. Una risposta inaccettabile.


Abbiamo memoria viva di un alunno ospitato in una casa famiglia, che aveva incorporato per osmosi una dose considerevole di rabbia, sfociata in atti di ribellione. Sarebbe stato facile prendere la via della punizione e scaricare il problema totalmente sui servizi sociali; invece, un gruppo di insegnanti capaci scelse di imbrigliarlo a scuola, con una promozione certamente generosa il cui risultato fu, però, dare all'alunno il tempo per trovare altre strade su cui incanalare le energie e depurarsi dalle tossine. Una mattina, la scuola subì l'incursione di un gruppetto di ragazzi – ospitati nella stessa casa famiglia – in missione punitiva contro di lui; c'era da attendersi una reazione del nostro alunno di ugual grammatica, invece questi chiese ai docenti di accompagnarlo dai Carabinieri. Dal terzo anno di scuola, fino al quinto, lo studente fu eletto in Consiglio d’istituto. Non fu un miracolo, fu il risultato naturale di un percorso di crescita personale, accompagnato da adulti, capaci di prendersi cura dell'adolescenza.


Troppo spesso guardiamo ai ragazzi e alle ragazze con un teleobiettivo, sfuocando lo sfondo; dovremmo invece usare un grandangolo, per inserirli nel contesto messo a fuoco e curato tanto quanto il soggetto. In nessuna parte del mondo la punizione può essere considerata, di per sé, una forma possibile di educazione. E appare paradossale la proposta di allontanare gli alunni difficili da scuola, che ha il compito di educarli perché diventino degli adulti responsabili e socialmente utili, per affidarli ai lavori socialmente utili, facendo diventare quel fine una punizione. Se vogliamo che i figli che hanno perso la strada la ritrovino bisogna metterli di fronte a strade impegnative e aperte, non alle pareti chiuse di una prigione.


Giuseppe Bagni
Giuseppe Buondonno


La vita è incontro. E gli incontri cambiano la vita. Papa Francesco ci indica incessantemente da più di dieci anni – e che anni! – l’impegno per tener viva e far crescere la «cultura dell’incontro» come antidoto alle devastazioni materiali, morali e spirituali della «cultura dello scarto» e della logica e pratica della guerra. Prima di lui, ancorati al Verbo fatto carne e rincuorati dalle scintille di vero e di buono seminate e accese ovunque nel mondo, maestri di fede e di umanità avevano acceso in tanti di noi questa consapevolezza che ci spinge non solo a tenere dischiuse le nostre porte ma a usare intelligenza e parole, occhi e mani per costruire ponti e legami, per capire, per sostenere, per avvicinare. Credo sia importante partire da qui, dopo la pausa estiva, in questo ritrovato appuntamento domenicale sulle pagine di “Avvenire”, e ringrazio l’amica e gli amici lettori che mi danno lo spunto per farlo.

Contano gli incontri imprevisti, quelli che si fanno per strada e che l’autrice e l’autore delle due prime lettere hanno trasformato con gentilezza in altrettanti sorrisi che abbracciano pure me. Sono parte della preziosa fatica, mai scontata e mai finita, alla quale anch’io mi assoggetto per far sì che ciò che pensiamo e diciamo e scriviamo si specchi in ciò che viviamo e semplicemente facciamo nella quotidianità anche solo incrociando per via qualcuno – come scopro essermi accaduto con l’amico lettore Piccinini e la sua famiglia – che ci conosce e riconosce a nostra insaputa. (Tutto ciò mi fa tornare in mente la fondamentale lezione di mia madre, che nella mia Assisi bambina mi incitava: “Saluta con un sorriso tutti quelli che incontri per strada”. “Mamma – le risposi la prima volta – ma io non li conosco!”. “Ricorda sempre che loro possono invece conoscere te”).

Devo poi ammettere che mi emoziona molto constatare che le parole di “Avvenire” continuano ad arrivare anche a chi ha poco o nulla. È la singolare grazia del giornale di carta, che di giorno può leggere anche chi non possiede alcuno strumento della nostra modernità digitale e, qualche volta, di notte può magari diventare povera e benedetta coperta. Per questo ho chiesto ai colleghi di fare spazio in questa pagina alla «celeste immagine» scattata da Isa Traversi. Aggiungo solo che l’informazione, un’informazione di qualità – e perciò non superficiale, non intossicata e non deformante di fatti, situazioni e persone – è essenziale per tutti, e soprattutto per chi ha meno, o addirittura, secondo i parametri delle nostre società opulente e contraddittorie, è radicalmente povero e tenuto ai margini. È un piccolo lusso che tutti dovrebbero permettersi, perché siamo tutti mendicanti di verità piccole e grandi.

Contano tanto anche gli incontri previsti e, addirittura, sulla carta obbligatori che cadenzano la nostra esistenza. Quello con la scuola e nella scuola è decisivo, sebbene in diversi modi possa essere disatteso e tradito in questo Paese che mescola la rincuorante realtà di una straordinaria dedizione di una marea di insegnanti (purtroppo straordinariamente malpagati) e una sconsolante dispersione scolastica che sospinge troppi adolescenti nell’area grigia dove l’alternativa alla formazione alla vita adulta e buona diventa la malavita. La lettera degli amici Bagni e Buondonno è intensa e bellissima. La condivido in toto. Mai carcere per i figliol prodighi. La formazione non fa rima con punizione, né a Caivano né a Milano o a Palermo o a Perugia o a Trieste...

***

Mi permetto infine il ricordo di due amici, persone grandi e belle che ho incontrato lungo la strada, condividendo pensieri e impegni.

Mi piaceva dialogare con Domenico De Masi, gran sociologo e uomo di limpida passione civile dalla parte dei poveri. Imparavo nell’ascoltarlo. E sono stato felice di camminare con lui, a braccetto, il 5 novembre 2022 per le vie di Roma in nome della pace da ricostruire e della guerra da far finire. Eravamo due tra tantissimi manifestanti diversi e uguali, come sempre gli uomini e le donne. Ci siamo ritrovati infine, e ci è piaciuto restare lì, subito dietro un gran numero di profughi ucraini con banda musicale e speranze gridate e disarmanti. Non lo dimenticherò.

Ho voluto molto bene ad Antonio Airò, collega saggio e profondo, uomo generoso e gli sono ancora grato del tanto lavoro comune (anche quando non eravamo nella stessa redazione). Un fratello maggiore, vero giornalista e intellettuale che ha saputo testimoniare concretamente che cosa significa essere cattolico e democratico. Negli ultimi anni di vita, nei quali non ha sospeso l’attenzione acuta alle vicende sociali, ecclesiali e politiche ma ha dovuto adattarsi a uno stile decisamente più appartato, non ha lesinato agli amici lo sprone dei suoi pensieri forti, anche se non li metteva più in pagina e li sussurrava al telefono. Mi mancherai, caro Antonio. Hai sempre visto chiaro, ora di più.



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