martedì 17 gennaio 2012
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Si parla molto di liberalizzazione della professione di avvocato. Ma pochi sanno di cosa si tratta. Anche approfondendo il tema ci si smarrisce e confonde tra la riforma dell’ordinamento forense (approvata al Senato nel novembre 2010 e ora ferma alla Camera), le disparate disposizioni inserite nelle diverse manovre economiche che si sono inseguite dal luglio al dicembre 2011 e le voci su prossimi nuovi decreti. Non è facile fare ordine tra tante iniziative. Ma alcuni punti si possono fissare. La riforma approvata al Senato – e salutata come «equilibrata e progressiva» dal presidente del Consiglio nazionale forense degli avvocati, Guido Alpa – ha un suo impianto solido, organico: ridisegna in modo meno corporativo il procedimento disciplinare, affidandolo ad avvocati non eletti dai loro colleghi (e dunque tendenzialmente più indipendenti); attribuisce al cliente un maggior controllo sulle tariffe proposte dal difensore; conferma l’accesso alla professione tramite l’esame di Stato; rafforza il tirocinio e il legame tra ordini e Università. Le norme inserite nelle manovre economiche appaiono assai più confuse e, soprattutto, prevedono una riduzione a diciotto mesi del periodo di tirocinio (oggi di due anni). Quel che più allarma sono però i fumi ideologici che avvolgono la discussioni di questi ultimi mesi. Come se il miglioramento del servizio giustizia dipendesse dalla liberalizzazione assoluta nell’accesso alla professione, magari attraverso l’eliminazione dell’esame di Stato (che invece, non si dimentichi, è previsto dall’art. 33 della Costituzione). Insomma: dall’aumento della concorrenza. È un’impostazione astratta, che non si misura con la realtà. Gli avvocati sono in Italia 230 mila. La concorrenza, sempre crescente, aumenta le difficoltà economiche di un’ampia fascia di avvocati giovani. Basta sostare all’ingresso di un’aula in cui si celebrano i processi per direttissima per scoprire che spesso il muro del "minimo tariffario", sulla cui eliminazione tanto si discute è, da anni, travolto dai fatti. Il problema dell’avvocatura non è dunque la necessità di una maggiore concorrenza. Il servizio offerto dagli avvocati consiste nell’aiutare il cittadino a tutelare i propri diritti: non può essere trattato come la merce di un supermercato. Bisogna curare la qualità, non aumentare la quantità. E l’eccesso di offerta va a scapito della qualità. La precarietà in cui vivono molti giovani avvocati dilata la tentazione di cedere agli antichi vizi che si vorrebbero combattere: tradire la linea guida dell’indipendenza; interpretare in modo distorto la doverosa lealtà verso il proprio assistito, facendola sconfinare nella violazione delle regole; praticare una concorrenza a basso prezzo ma basata sulla sciatteria nello studio degli atti e nel reale esercizio della difesa; trascurare l’aggiornamento professionale. L’unica trincea contro queste degenerazioni sono dei Consigli dell’ordine forti e aperti al confronto con l’esterno. Affidarsi esclusivamente alla selezione del mercato significa far vincere il più forte, che non necessariamente è il più bravo. C’è, evidentemente, a monte di questi problemi, la questione di una seria selezione meritocratica. Questione mai seriamente affrontata. È un problema che non riguarda soltanto l’avvocatura ma l’intera società italiana: le sue classi dirigenti, l’università, la scuola superiore. L’utopia di don Milani – abbattere la selezione classista, sostituendola con una selezione che premiasse i migliori, indipendentemente dai natali e dal censo – è purtroppo fallita. La nostra scuola pubblica è ricca di insegnanti di altissimo livello ed è capace di formare allievi preparatissimi. Ma allo stesso tempo è capace di regalare, con infimi livelli culturali, titoli di studio equivalenti a quelli guadagnati con sacrificio dagli studenti migliori. Ed è così che, agli esami e ai concorsi per avvocati o magistrati, noi troviamo laureati in giurisprudenza capaci di scrivere strafalcioni come «il diritto di risquotere», di discutere di una «vesperata quaestio», o di citare la giurisprudenza della «Corte dell’Ajax». Nessuno può pensare che il nostro sviluppo economico possa rilanciarsi affidando a questi somarelli la tutela della libertà e dei diritti dei cittadini.
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