venerdì 2 febbraio 2024
L’entusiasmo di Elon Musk per l’intervento condotto dalla sua azienda accende speranze ma anche timori. Ecco cosa dovremmo sapere
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L’esperimento autorizzato dalla Food and Drug Administration e appena realizzato da Neuralink (l’azienda di Elon Musk) ha attirato notevole attenzione dell’opinione pubblica, da un lato suscitando speranze e dall’altro timori. Dopo test falliti sugli animali (anche su primati, con un numero elevato di danni e alta mortalità), emerge la curiosità ma anche la preoccupazione del “primo esperimento sull’uomo”. Lo scopo dello studio è quello di impiantare nel cervello umano di un paziente paralizzato un microchip con elettrodi in grado di consentire la trasmissione diretta tra cervello e dispositivi elettronici, l’interfaccia cervello-computer.

L’obiettivo è di grande interesse nell’ambito dello sviluppo delle neurotecnologie: realizzare una comunicazione tra sistema nervoso e strumenti digitali per consentire a pazienti che a causa di patologie non possono esprimere il loro pensiero di manifestarlo grazie alla decodifica dei segnali nervosi, ossia la “lettura” della mente da parte di software. Il dispositivo è posizionato nell’area cerebrale del soggetto, ove si manifesta l’intenzione del movimento, ma la brochure che descrive lo studio ai potenziali partecipanti non dice nulla sulla possibilità di comandare dispositivi per il movimento, anche se si intuisce che potrebbe essere una applicazione, poiché tra i candidati al reclutamento vi sono persone paraplegiche o amputate. Si scrive che l’obiettivo è garantire «la capacità di controllare dispositivi esterni con il pensiero»: in effetti sono reclutati anche sordi, ciechi e muti, il che farebbe pensare che l’obiettivo sia la comunicazione non il movimento. Non è un elemento banale, perché lo scopo dello studio è determinante per la rilevanza scientifica ed etica: nella brochure rivolta ai potenziali candidati alla sperimentazione l’obiettivo non è chiaro.

Ma quali sono i problemi etici? In primo luogo, la sicurezza: l’esperimento è invasivo, in quanto espone il soggetto a rischi, connessi all’intervento cerebrale, a possibili infezioni dei tessuti o al rigetto del dispositivo impiantato, rischi al momento incerti sia nel breve che nel lungo termine, che possono essere anche irreversibili. Oltre ai rischi fisici connessi all’integrità fisica, emergono anche possibili rischi psichici: incerto è l’impatto che questi dispositivi possono avere sulla mente del soggetto e sulla sua vita sociale.

In secondo luogo, la proporzionalità benefici / rischi: sul sito Neuralink compare il riferimento al «potenziale sviluppo di un prodotto commerciale». Questi sarebbero i benefici economici per l’azienda, ma non certo per il paziente che partecipa ad una sperimentazione rischiosa: semmai, il soggetto di sperimentazione avrebbe forse il vantaggio di non dovere comprare un dispositivo che è già impiantato. Non si menziona nella brochure proposta ai candidati all’esperimento, invece, la possibilità di ottenere il movimento del paziente, che dovrebbe essere il vero obiettivo terapeutico per un soggetto paralizzato, oltre alla comunicazione: obiettivo terapeutico che, se anche non si raggiunge sul partecipante (beneficio diretto), potrebbe però migliorare le conoscenze per futuri pazienti nella medesima condizione (beneficio indiretto). Nulla di tutto ciò è menzionato nella brochure per i partecipanti.

In terzo luogo, l’autonomia del paziente: come per ogni sperimentazione, chi partecipa deve essere libero e non influenzato nella scelta e pienamente consapevole dei rischi e dei benefici. Sul sito di Neuralink non è consultabile il modulo del consenso informato del partecipante, ma è auspicabile che l’informazione sia aggiornata e comprensibile, ma soprattutto leale e onesta e che non induca false speranze o illusioni in pazienti che vivono condizioni di patologie gravi. Vi sono poi ulteriori problemi etici che si delineano in questo tipo di ricerca neurotecnologica. L’interfaccia cervello-computer - nella misura in cui si potrà realizzare - comporta la non possibilità di “filtrare” e selezionare la trasmissione del pensiero: in altri termini, se il cervello comunica direttamente con un dispositivo tramite microchip, il soggetto non potrà avere la possibilità di “non dire’” alcuni pensieri, sia inconsci sia consci, che non intende comunicare. Si discute di privacy cerebrale o libertà cognitiva nell’ambito delle neurotecnologie che “leggono” la mente, intese come la possibilità per un soggetto di tenere riservati alcuni pensieri. Sarebbe interessante capire se e come è gestita questa criticità nell’esperimento di Neuralink.

Inoltre, in linea di principio, la comunicazione cervello-computer dovrebbe essere anche computer-cervello, ossia bidirezionale. Questo è, forse, il vero obiettivo dell’esperimento: si legge sul sito di Neuralink anche il riferimento all’obiettivo di “potenziare” le capacità cognitive e nell’intestazione «creare un’interfaccia cerebrale generalizzata per sbloccare il potenziale umano domani». Potremmo – forse - con un microchip caricare nel nostro cervello contenuti dal computer che poi possono essere codificati neurologicamente e consentirci ad esempio di imparare lingue o acquisire abilità di calcolo o scaricare enciclopedia. È, forse, l’ambito del potenziamento umano il “non detto” dell’esperimento. Il confine tra terapia e potenziamento è sfumato e apre molti problemi etici: di sproporzione tra benefici e rischi (ha senso esporsi a rischi fisici e psichici con l’obiettivo di aumentare capacità intellettive?), di libertà (saremmo davvero liberi di potenziarci in società competitive che esigono standard sempre più elevati di prestazioni?) e giustizia (chi potrebbe accedere a queste tecnologie prevedibilmente molto costose?).

Tante le domande etiche che in sostanza chiedono alla ricerca di riflettere sul bilanciamento complesso tra l’avanzamento neurotecnologico che dischiude opportunità per pazienti e la responsabilità morale del ricercatore. Risulta indispensabile oggi formare i ricercatori anche nel settore delle neuroscienze e delle neurotecnologie all’etica e istituire comitati di etica con esperti competenti per la valutazione dei progetti di ricerca in questo settore così promettente ma anche molto delicato. Abbiamo bisogno di linee guida per la ricerca e di regole che nascano da un dialogo interdisciplinare, nella collaborazioni tra aziende, centri di ricerca privati e pubblici, e abbiamo anche bisogno di un dibattito che includa i cittadini che devono essere consapevoli di queste problematiche, e non preda di facili entusiasmi o paure irragionevoli.

Esistono già alcuni documenti ancora poco conosciuti, ma che segnano la riflessione su questi temi. Il documento del Comitato internazionale per la Bioetica dell’Unesco, Rappoto sugli aspetti etici delle neurotecnologie (2021), e dell’Ocse, Raccomandazioni per una innovazione responsabile delle neurotecnologie (2019). Entrambi i documenti delineano opportunità e rischi delle neurotecnologie, sia nell’ambito della ricerca sia di possibili applicazioni, sollecitando a elaborare regole e nuovi diritti, i cosiddetti neurodiritti: la protezione dell’integrità fisica e mentale da danni psicologici e interferenze indebite di neurotecnologie invasive; la protezione delle informazioni private relative al cervello (la privacy mentale); la protezione della libertà cognitiva umana per prevenire la possibile alterazione e manipolazione esterna e consentire la libertà di pensiero e di espressione; la giustizia, per evitare neurodiscriminazioni.

La ricerca si sta muovendo rapidamente, come dimostra questo esperimento: è indispensabile che la riflessione etica sia elaborata e ispiri le regole, nell’auspicio che non arrivino troppo tardi, come a volte accade nell’ambito della tecno-scienza. Sarebbe importante riflettere ora per orientare la ricerca e integrarla eticamente pianificando studi che includano i valori della proporzionalità, autonomia, giustizia nel disegno stesso (la ethics- in-design), nel quadro del rispetto dei diritti umani fondamentali.

Ordinario di Filosofia del Diritto, Lumsa

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