Italia-Cina, cioè i «porti aperti»
mercoledì 20 marzo 2019

Il sovranismo è un esercizio politico difficile, incerto, spesso contraddittorio. Dopo tanta enfasi sulla chiusura dei porti e sul controllo dell’immigrazione, mentre accade l’inimmaginabile contro chi salva naufraghi nel Mediterraneo e non li rimanda nei lager libici, il governo gialloverde si appresta ad aprire il porto di Trieste alla potenza economica cinese. Non solo le (disprezzate) cancellerie europee, ma anche alleati fino a ieri indiscussi come il presidente Trump hanno cercato di mettere in guardia Roma dal compiere un passo così impegnativo e dagli esiti imprevedibili. A quanto pare inascoltati.

Nessuno è in grado di dire se arriveranno davvero per l’Italia i vantaggi economici sbandierati, o se l’accordo rappresenterà il cavallo di Troia per una nuova e decisiva tappa dell’espansione economica cinese in Europa. Ciò che si può osservare è che sono stati finora Paesi fragili, dall’Asia centrale all’Africa, a sottoscrivere patti così impegnativi con Pechino. E ciò che sembra interessante discutere sono gli intrecci della spericolata politica commerciale intrapresa dall’Italia con le questioni dell’immigrazione. Insieme alle merci e agli investimenti, se si concretizzeranno, arriveranno infatti le persone. Non sarà agevole negare loro l’ingresso e il diritto a seguire i loro affari in Italia. È assai probabile, anzi, che godranno di un trattamento privilegiato, come avviene già oggi per chi si presenta come investitore. Le politiche migratorie sono selettive, e accanto ai passaporti e alle professioni, i portafogli forniscono dei lasciapassare dalla potenza incredibile. Non c’è sovranismo che tenga: un numero crescente di Paesi concede la cittadinanza, non solo il permesso di soggiorno, agli stranieri che portano in dote un gruzzolo da investire. Se poi dietro ai nuovi arrivati c’è un governo con forti argomenti per farsi rispettare, i sovranismi si ammorbidiscono quasi magicamente.

I nuovi arrivati rafforzeranno dunque una presenza cinese già consistente e attiva nel nostro Paese: circa 290mila residenti, con 52mila titolari d’impresa. Immigrati, però, colpiti da pregiudizi e sospetti, appena attenuati dal più recente allarme per l’arrivo dal mare di persone in cerca di asilo. «I cinesi non muoiono mai» (Chiarelettere 2008) era addirittura il titolo di un libro che ironizzava su una delle più insistenti dicerie contro di loro. «I cinesi non fanno mai benzina al distributore», «non pagano le tasse», «girano con valigette piene di soldi», sono altre voci che girano di bocca in bocca. Notizie di epidemie, come l’aviaria di qualche anno fa, seminano periodicamente il vuoto attorno a loro. Le ondate di insinuazioni hanno quasi ucciso la ristorazione cinese in Italia, costringendo i titolari a riconvertirsi verso cucine meno bersagliate dai preconcetti, a partire da quella giapponese. I loro comportamenti industriosi e i lunghi orari di apertura a cui si sottopongono per rimanere a galla sono da molti stigmatizzati, anziché essere apprezzati. Sarà dura per il sovranismo di governo e per i suoi seguaci distinguere i nuovi uomini d’affari in giacca e cravatta dai vecchi bottegai con negozi pieni di mercanzie, famiglie benvenute perché benestanti da famiglie malviste perché accusate di contribuire a rendere troppo multietniche certe periferie e scuole. Chissà se si ripeteranno anche per i futuri immigrati le leggende che oggi ostacolano una piena accettazione dell’immigrazione cinese, oppure se i nuovi venuti riscatteranno l’immagine dei loro predecessori. In ogni caso il governo e gli odiatori da tastiera dovranno trovare nuovi argomenti per convincere gli italiani che le frontiere sono sigillate e il Paese è stato messo al riparo da pericolose contaminazioni con il Sud del mondo. Sono gli effetti della globalizzazione. Ma un conto è governarli, un altro subirli facendo la faccia feroce solo con gli immigrati più deboli e disarmati.

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