martedì 1 giugno 2010
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L'assalto da parte del commando israeliano in acque internazionali alla nave turca Marmara che ha provocato morti – forse 10 – e numerosissimi feriti non può trovare giustificazione, né sul piano militare né tanto meno su quello del diritto. La sproporzione di esiti rispetto alla reale minaccia, l’alto numero di vite umane sacrificate, l’evidente scempio di ogni buon senso nell’attaccare un convoglio di aiuti umanitari (ancorché manifestamente solidali con Gaza e con Hamas che la governa non certo con un consenso capillare, bensì con la forza che solo la prepotenza e l’intimidazione sui più deboli possono garantire) parlano da sé. E spiegano ampiamente il coro dolente e indignato che si sta levando in tutto il mondo a condanna del massacro.A questo punto, è inevitabile sottolineare come le dinamiche fra Israele e i propri avversari diretti – il palestinese Hamas, ma anche il più accorto Hezbollah libanese – abbiano ormai raggiunto un punto di non ritorno che paradossalmente rende l’uno complice e complemento degli altri, in una danza macabra cominciata molto tempo fa e scandita dalla logica della rappresaglia. La coreografia di questa tragica pantomima è quasi sempre la stessa: consapevoli della propria inferiorità militare rispetto alle ben addestrate truppe con la stella di David, i radicalismi arabi giocano la loro partita sul piano mediatico, avvalendosi del loro più prezioso alleato, quell’opinione pubblica mondiale (anche israeliana, come testimoniano intellettuali del calibro di Grossman, Yehoshua, Oz...) che giustamente sussulta di fronte alle morti innocenti, che inorridisce davanti ai condomini di Gaza o di Burj el Barajneh sbriciolati sotto le bombe degli F16 israeliani, che reclama giustizia di fronte alla retaliation, la risposta militare come misura di tutte le cose.I leader di Israele lo sanno bene. Sanno che la guerra di Gaza del 2009 ha tolto loro consensi e simpatie internazionali. Sanno che annunciare il proseguimento di insediamenti di coloni nel mezzo di una visita ufficiale del vicepresidente americano Biden non è il miglior biglietto da visita per la pace in Medio Oriente che Obama sollecita. E sanno che l’eccidio in mare di ieri notte non farà che allargare il fossato che li separa dal mondo occidentale che dovrebbe essere il loro naturale alleato.Anche Hamas e Hezbollah, a loro volta, sanno che una batteria di razzi messa ad arte in prossimità di un asilo o di un ospedale palestinese provocherà l’immancabile reazione di Israele e che lo sperpero di vite innocenti (come accadde a Cana in Libano nel 2006 o a Gaza durante l’operazione "Piombo fuso") finirà per rendere loro politicamente molto di più di una vittoria sul campo. Non per niente, grazie all’immensa copertura mediatica da parte delle emittenti satellitari, giocano cinicamente sulle vite dei loro stessi concittadini.Qualcuno dice che Israele sia da tempo prigioniero di se stesso. Che la distinzione fra una minaccia potenziale e una minaccia reale sia diventata per i suoi vertici militari così sottile da essere quasi scomparsa, così come la psicosi dell’accerchiamento abbia tolto lucidità e lungimiranza ai suoi leader politici. Avvinghiati in una lotta in cui nessuno dei due contendenti potrà mai dirsi veramente vincitore, Israele e i più radicali fra i suoi avversari arabi sembrano l’allegoria tragica di una sordità condivisa. Come se il vero nemico comune fossero il dialogo, la conciliazione, la pace. Una pace che oggi – ancora una volta – vediamo trafitta e sospinta molto, troppo lontano.
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