«Io, disabile e non scarto, cammino con la speranza»
venerdì 12 febbraio 2021

Scrivo traendo riflessione dalle montagne che circondano Livigno, dove mi trovo. Il sole che ogni tanto spunta tra le nuvole mi ricorda che finirà anche questa lunga notte di privazione di contatti umani imposti dal Covid. Che presto qui torneranno i miei amici sciatori, i miei vecchi compagni di arrampicata.

Chi conosce la mia storia sa già che è guardando queste montagne che alla morte ho preferito la Vita. Perché? Perché a volte può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo, anche in maniera molto evidente, come è successo a me dopo avere ricevuto la terribile diagnosi di Sclerosi laterale amiotrofica, possa invece rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza la possibilità di alternative. La malattia, l’evento traumatico, la disabilità non portano via le emozioni, i sentimenti, la possibilità di comprendere che l’'essere' conta di più del 'fare'. Perché la malattia può davvero disegnare, nel bene e nel male, una linea incancellabile nel percorso di Vita di una persona. O, ancora meglio, edificare una serie di Colonne d’Ercole superate le quali ci è impossibile tornare indietro, ma se lo si vuole, ci è ancora consentito di guardare avanti. 'Non vivere di foto ingiallite...' scriveva Madre Teresa di Calcutta in una sua preghiera. Ed è proprio questo il nocciolo della questione; pensare a ciò che è possibile fare piuttosto che a quello a cui non si è più in grado di ottemperare.

La malattia non è una cosa buona, non è auspicabile, ma è, ed è ciò che io chiamo l’imprevisto. Mi ha insegnato alcune cose importanti, su tutte quella di non dare mai nulla di scontato. Penso ai costoni che risalivo, penso alla freschezza contenuta in un bicchiere d’acqua che oggi non posso più bere perché la malattia mi impedisce di deglutire. La mia Vita era quella bellissima sensazione di arrivare in cima con le mie braccia e le mie gambe e il ristoro di quell’acqua fresca? Lo era, eccome. Ma non era solo quello. Ribadisco, l’Essere conta di più, più del fare, più del fare qualsiasi cosa fino a quando c’è ancora altro da fare.

Ero un medico, ricercatore, docente, ero Mario. La malattia poteva portarmi via la mia professione, che era la mia passione? Mi ha tolto la possibilità di praticarla in un certo modo, ma Mario è rimasto, con il suo amore per la scienza, la sua ostinata avversione per la resa. La malattia ha lasciato a Mario la possibilità di potere vedere con un altro sguardo i pazienti. La Vita è una questione di sguardi. E ho cominciato un nuovo percorso, che mi rendesse utile. La Vita mia cambiava e io a darle una nuova disponibilità. Lavoro, ogni giorno, fornendo il mio contributo alla salute degli altri, ricoprendo vari ruoli nell’amministrazione e nella gestione della cosa pubblica. L’ho fatto e lo faccio perché venga garantita la reale e concreta risposta alla domanda di salute.

Le sfide che ci attendono sono tantissime, la pandemia lo dimostra. Mi piace immaginare, e intorno a me lo vedo, che lo sforzo che compio quotidianamente è di grande stimolo per tutti. E questo mi rende consapevole, soddisfatto sì, ma con la voglia di andare sempre oltre, sempre dalla parte del paziente, dei suoi bisogni. È tutto ciò è terapeutico, anche e soprattutto per me. Da malato ho scelto la Vita, per essere di aiuto, e con gratitudine farmi aiutare, da tutti, da mia moglie, dai miei familiari, i miei amici, i miei colleghi. In questi anni ho dismesso la tuta da ciclista, ho riposto l’attrezzatura per le arrampicate, ho imparato a farmi aiutare per affrontare le piccole cose della quotidianità, ho imparato la consapevolezza del limite.

Chi è vittima di una malattia soffre, chi resta solo è disperato. Non la patologia, ma la solitudine insorge il dubbio che la Vita non valga la pena di essere vissuta. Questo ho imparato: la malattia rende fragile il corpo; il venire meno dell’adeguato sostegno, la solitudine. È inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale. Si tratta di un’offesa per tutti, ma in particolar modo per chi vive quelle determinate condizioni. Questa idea può aumentare la solitudine dei malati, delle persone disabili e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Questa è purtroppo ciò che io chiamo la cultura del benpensante o addirittura, la cultura dello scarto. Sentirsi utili è il motore del cuore, la speranza è l’unico farmaco del quale non possiamo fare a meno. La speranza, come sentimento confortante che ci permette di identificare con l’occhio della mente, il percorso che ci può condurre ad una condizione migliore.

Quando sono tra queste montagne benedico chi mi ha donato la Vita, che per quello che posso, per come posso, dono agli altri appagato dall’amore che ricevo in cambio. La Vita è una questione di sguardi e di speranza e un battito di ciglia, lieve e talvolta impercettibile come quello delle ali di una farfalla, può davvero divenire testimonianza della pienezza dell’essere, del sentire e allo stesso tempo essere un ponte che permette a pieno titolo di sentirsi vivi, con una meravigliosa e inguaribile voglia di vivere. Ho un sogno ricorrente: mi rivedo in queste valli, sono nuovamente in piedi, cammino. Quel tempo arriverà, nel frattempo non voglio sprecare un solo giorno.

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