Investire su sanità e ricerca primo vaccino per il mondo
venerdì 21 maggio 2021

Caro direttore,

prima la vita, sempre. Che le persone siano curate in ospedale, disperse in mare, o perché esposte alla peggiore pandemia dell’ultimo secolo deve sempre valere il principio che prima di tutto conta la tutela della vita. Se il dibattito politico su come salvarla si apre solo 'dopo' qualcosa non torna proprio sull’efficienza della politica stessa, che dovrebbe preparare le istituzioni e indirizzarle secondo princìpi universalmente riconosciuti. E non ce n’è uno più alto del diritto alla vita e della sua tutela.

Aprire il dibattito sulla licenza obbligatoria dei vaccini, o sulla sospensione dei brevetti, è probabile serva in questa fase più ad allontanare le ombre sull’operato dei governi che non alle popolazioni ancora in attesa della più potente arma di prevenzione contro il Covid-19. Anche perché dalla sospensione sino alla sortita pratica ci sarebbero poi da superare tutti gli ostacoli legati al reperimento delle materie prime, a competenze, produzione, conservazione, stoccaggio, distribuzione... Dall’annuncio del presidente americano Biden alle reazioni che si sono susseguite, da giorni assistiamo alla contrapposizione tra differenti ideologie e posizioni. Uno scontro che ha molto poco di pragmatico e risolutivo. Stati nazionali che investono pochissime risorse in ricerca e sviluppo vorrebbero che l’industria farmaceutica cedesse i brevetti frutto di investimenti sulla ricerca per miliardi di dollari, finanziata da chi guarda al farmaco come fonte di guadagno. Facile essere in posizione mediana, affermare cioè che soprattutto i Paesi industrializzati dovrebbero investire e favorire molto di più la ricerca; altrettanto facile sostenere che l’industria dovrebbe rivedere anche la propria bulimia di guadagni. Nel recente passato abbiamo avuto momenti importanti in cui dal dibattito si è passati ad azioni concrete: i farmaci anti-Hiv per curare l’Aids, il vaccino anti-aviario... In questi casi si è regolato il contingente, senza strutturare regole d’ingaggio utili a soddisfare tutti.

Quando ricoprivo il ruolo di direttore generale di Aifa, per rispondere concretamente ai bisogni terapeutici mi sono trovato nelle condizioni di dover garantire la messa a disposizione di farmaci in modo equo, omogeneo e sostenibile per il sistema, stoppando l’eccessiva pretesa di certa industria, pur riconoscendo l’attività salvifica della loro iniziativa di ricerca e produzione. È accaduto ad esempio con i farmaci per l’epatite C, farmaci salvavita capaci di eradicare la malattia, evitando sofferenze indicibili, i trapianti di fegato, addirittura la morte. C’è stato un momento in cui la trattativa è stata ribaltata. Dopo il giusto riconoscimento, è arrivato il momento di stoppare ulteriori pretese, oggettivamente ingiustificabili rispetto alla domanda di salute.

Mettere paletti è possibile. Nel caso dei vaccini contro il Sars-CoV-2 la politica si è trovata per una volta nell’incredibile posizione di vantaggio attraverso la quale avrebbe potuto dettare le regole. I contratti firmati al buio, senza che l’industria avesse ancora il prodotto, potevano contenere clausole precise che regolassero la produzione e i brevetti. Un anno e mezzo fa l’Europa, così come gli Stati Uniti, avrebbero potuto determinare la sospensione dei brevetti da parte di chi avesse scoperto per primo il farmaco, e pianificare una produzione su grande scala. Non lo ha fatto e oggi si trova a ingaggiare un braccio di ferro, non sappiamo quanto utile, perché a brevetto 'sospeso' bisognerebbe fare i conti con i processi di industrializzazione e di produzione, e poi il fabbisogno delle materie prima, le competenze, la distribuzione...

Peraltro un atto di forza – come fatto notare da molti economisti, non solo di stampo liberale – potrebbe determinare in futuro un forte disincentivo agli investimenti in ricerca e sviluppo da parte dell’industria, oggi l’unico soggetto a programmare la spesa di miliardi di dollari in questo campo. Ricordo che a fronte di centinaia di potenziali molecole, di pipeline, infine solo poche di esse – alcune unità – arrivano a concludere, spesso dopo diversi anni, quel percorso che trasforma la ricerca in farmaco. E tanti sono, purtroppo, i fallimenti.

Credo, e temo, che infine questo dibattito rischi di risolversi in un nulla di fatto, dimostrando – così com’è stato nella comunicazione della pandemia – che in materia sanitaria, nella ricerca di dispositivi di protezione individuale, di respiratori, di posti in terapia intensiva, nell’organizzazione della medicina del territorio, spesso tutto venga lasciato più all’improvvisazione che fatto oggetto di programmazione. Ma è di programmazione che nella sanità mondiale, e anche nel nostro Paese, c’è bisogno.

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Sono totalmente d’accordo con te, caro professore e caro amico, sulla necessità di programmazione nella sanità (e non solo), nel mondo e in Italia. Ma non posso non annotare in coda al tuo serrato ragionamento che stavolta, contro il Covid, gli Stati hanno contribuito direttamente e copiosamente alla ricerca dei vaccini (oltre il 90% delle risorse ha rivendicato il nostro premier Draghi, sino al 97-98% abbiamo documentato su queste pagine). Per questo condividiamo totalmente gli appelli del Papa, del segretario generale dell’Onu e di altri illustri personalità: «Vaccini per tutti». E mi auguro con tutto il cuore che il rischio, purtroppo reale, che tu evochi di un paralizzante «nulla di fatto» tra Stati e Big Pharma venga spazzato via da scelte di alta morale e alta politica, risposta – in un mondo in cui si parla spesso a vanvera dei diritti – a un comune civile dovere. (mt)

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