È intrecciato il futuro d'Europa e giovane Africa
domenica 9 gennaio 2022

Mentre in Europa e ancor più in Italia si fanno meno figli, il continente africano sta registrando una crescita esponenziale a livello demografico. Nel 1960, l’Africa contava circa 284 milioni di abitanti; nel 1990, la popolazione era di circa 630 milioni; oggi è di oltre 1,3 miliardi e un africano su due ha meno di 18 anni. Se l’Italia fosse cresciuta allo stesso ritmo, gli italiani sarebbero 185 milioni. Da rilevare che attualmente il 17% della popolazione mondiale è in Africa e si stima che entro il 2050 gli africani saranno quasi 2 miliardi e mezzo.

A metà del secolo la popolazione mondiale vivrà per il 25% in Africa (era il 13% nel 1995 e il 16% nel 2015) e solo per il 5% in Europa. La dimensione media delle famiglie africane, contrariamente a quanto avviene oggi sulla sponda nord del Mediterraneo, è di 4/5 componenti nelle città e 6/7 nelle aree rurali. Le stime degli esperti indicano anche che in Africa si registrerà un graduale e costante aumento della popolazione in età lavorativa, mentre si ridurranno le fasce non attive, sia quella troppo giovane sia quella troppo anziana per essere considerate produttive.

Lo si evince dal cosiddetto dependence index, un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia mediana, quella cioè lavorativa. Secondo i dati della Nazioni Unite, nel 2010, il continente con il dependence index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Di converso, l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47%. L’Onu, però, prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività, con un indice del 56% contro l’82% del Sud America e l’80% del Vecchio Continente.

Di fronte a questo scenario, si pone con evidenza e in una luce diversa il tema dei movimenti di persone dall’Africa verso il nostro continente e il nostro Paese. Spostamenti a volte preceduti da inaccettabili eventi luttuosi nel vasto «cimitero liquido» del Mediterraneo e accompagnati da un aspro dibattito sulla sensatezza umana e strategica delle politiche di esternalizzazione del controllo delle frontiere europee in ambito migratorio. La verità è che se s’intende controllare i confini, è necessario che i decisori politici si rendano conto del fatto che essi non si limitano allo spazio Schengen, né al Mare Nostrum, ma inglobano un perimetro di interessi ben più ampio, che circoscrive quasi l’intero continente africano.

Basti pensare all’attività estrattiva e al giro d’affari delle materie prime, energetiche in primis. Siamo, infatti, di fronte a uno spazio assai ampio, che coinvolge un numero crescente di persone, le cui preoccupazioni quotidiane sono ben lungi da qualsiasi aspirazione a diventare migranti 'clandestinistinazzati' e lavoratori sfruttati a cause delle politiche miopi e respingenti di troppi Paesi europei. Peraltro, l’emergenza pandemica del Covid-19 ha portato alla ribalta l’emergenza vaccinale in Africa dove, stando ai dati dell’Africa CDC ad oggi solo il 9% della popolazione ha concluso il ciclo di immunizzazione, mentre coloro a cui è stata somministrata una dose sono circa il 13%.

È evidente che di questo passo il continente sarà un vivaio di nuove varianti ed è dunque necessaria una cooperazione fattiva tra Nord e Sud che promuova il bene comune, in questo caso la salute. Per tutte queste ragioni, sarebbe più che auspicabile la definizione di un Patto Migratorio Euro-Africano che possa ridare dignità alla mobilità umana, scongiurando ogni forma di tratta delle persone, governando i flussi nel rispetto del valore della vita. Non definirlo significherebbe pregiudicare l’efficacia delle politiche migratorie nel quadro euromediterraneo. Per dirla con le parole di papa Francesco: «Siamo tutti sulla stessa barca e siamo chiamati a impegnarci perché non ci siano più muri che ci separano, non ci siano più 'gli altri', ma solo un 'noi'».

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