mercoledì 21 febbraio 2018
Una modernizzazione non al ribasso
Intelligenza e partecipazione per creare un nuovo sviluppo
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Sviluppo e lavoro richiedono di essere assunti in termini contestuali. Il lavoro non viene 'dopo' lo sviluppo, come portato o conseguenza dello stesso. Al contrario, ne costituisce un elemento coessenziale al pari di altri fattori quali l’innovazione, la qualità, la creatività che proprio nelle persone trovano il loro radicamento e la possibilità di piena esplicazione. Il gap tra dinamiche produttive ed esigenze quantitative e qualitative del lavoro richiede di essere ricomposto nell’ambito di una concezione allargata di sviluppo, nella quale la valorizzazione delle risorse umane non è un costo da minimizzare, ma al contrario una grande opportunità, sia per aumentare la qualificazione e la competitività dell’intero sistema-Paese sia per ampliare la gamma di beni e servizi ad alto valore aggiunto. Con altre parole potremmo dire che per stare sulla scena mondiale un Paese come l’Italia non deve costare di meno (ci saranno sempre realtà con costi inferiori), ma al contrario valere di più. Come declinare, pertanto, lavoro e sviluppo nell’ottica del bene comune? Ci sono a mio avviso tre passaggi fondamentali. Occorre in primo luogo investire nell’intelligenza . Ciò richiede uno sforzo massiccio nell’ambito della formazione, della ricerca, della realizzazione di reti attraverso le quali diffondere le innovazioni facendole fruttificare sul territorio. Questo però non è sufficiente.

Occorre altresì investire in una migliore qualità della vita per tutti. Vi sono bisogni ed esigenze che non possono più essere sacrificati a livello di cultura, lotta alla povertà e all’esclusione, sanità, protezione e valorizzazione dell’ambiente, ecc.. Essi rappresentano nel contempo importanti 'giacimenti' dai quali attingere per alimentare la crescita, radicandola più saldamente nella società civile. Per il nostro Paese vi è la necessità di risalire 'a monte' per esercitare una capacità di controllo e di condizionamento sulle determinanti del progresso scientificotecnologico e nel contempo estendersi 'a valle' per cogliere tutte le implicazioni del progresso stesso in termini di effetti moltiplicativi, di trascinamento, di generazione di nuove attività. In secondo luogo occorre creare un clima di fiducia tra i vari protagonisti della società e dell’economia, in particolare imprese, sindacati, istituzioni. La concertazione è una questione europea, nazionale e anche locale. Essa può essere intesa come una pratica che in sistemi complessi, con molti gradi di libertà, al loro interno, può consentire la combinazione virtuosa di progettualità, consenso e partecipazione. La concertazione risponde alla necessità di governare variabili economiche e sociali tra loro collegate da rapporti di interdipendenza e processualità e per le quali l’affidamento al solo mercato o alle prescrizioni dell’autorità pubblica si rivela o troppo rischioso o troppo costoso e, quindi, inefficace. In altri termini, le strategie di gestione economica e sociale presentano connotati di collegialità, ovvero presuppongono un certo grado di coinvolgimento dei soggetti interessati sia a livello macro sia a livello micro. Tale coinvolgimento può assumere varie configurazioni: lo scambio di impegni reciproci o multilaterali tra i diversi protagonisti, in ordine al conseguimento di obiettivi pro tempore condivisi, la definizione di comuni regole del gioco, l’assunzione di comportamenti coordinati e integrati. In terzo luogo occorre solidarietà. Solidarietà tra uomini e donne, tra padri e figli, tra regioni ricche e regioni povere, tra chi ha risorse finanziarie e chi ha capacità di iniziativa economica e sociale e chiede di essere sostenuto. La solidarietà è altresì presupposto per l’efficacia degli indispensabili processi di riconversione produttiva. Un ponte tra la 'distruzione' di attività (e quindi di posti di lavoro che non hanno più una ragionevole prospettiva) e la 'creazione' di nuove iniziative e possibilità occupazionali. La compensazione – quando c’è – non è né meccanica né automatica. Occorre tempo e in molti casi il 'capitale umano' che viene espulso dalle industrie che si ristrutturano non è lo stesso che domani sarà impegnato nelle nuove attività. La modernizzazione del nostro Paese non può essere interpretata né al ribasso né tantomeno in chiave autoreferenziale.

Deve essere solidale di un disegno di trasformazione reale. Un disegno nel quale far convergere le politiche di breve e le politiche di medio e lungo termine (oggi del tutto mancanti), nel quale far interagire il pubblico, il privato, il privatosociale (il gioco non è affatto a somma zero); nel quale armonizzare l’insieme e le parti (il federalismo è un patto per unire e non per dividere); il mercato e lo Stato; la libertà e la regolazione; la flessibilità e la sicurezza. Un disegno nel quale il sociale e il civile non sono confiscati, ma al contrario valorizzati per quanto di originale possono esprimere. Come ha affermato Jacques Delors: «La competizione stimola, la cooperazione consolida, la solidarietà unisce». Le discriminanti di siffatto modo di ragionare sono etiche e politiche a un tempo. Ne indico sinteticamente tre. La prima: le trasformazioni, con le quali fare inevitabilmente i conti, esigono la capacità di coniugare sacrifici presenti e benefici futuri su una base di equità. La seconda: le trasformazioni, per essere efficaci, richiedono adeguate forme di partecipazione e di controllo. La terza: le trasformazioni devono comportare la progressiva realizzazione di assetti più giusti ed equilibrati, un saldo netto in termini di democrazia sostanziale e di cittadinanza. L’inserimento di una dimensione etica nel campo dell’economia richiede pertanto un’ipotesi forte di partecipazione , di coinvolgimento di risorse individuali e collettive, come modo per cogliere e valorizzare le interdipendenze tra gli uomini e le situazioni, promuovendo comportamenti più solidali. Tutto ciò, nel contempo, si rivela essenziale anche per il successo e le performance delle stesse iniziative economiche. Pur con tutti i limiti e le contraddizioni, il potenziale partecipativo oggi esistente è enorme. Un potenziale partecipativo che si lega a istanze profonde di giustizia, di umanizzazione, di democrazia in grado di esprimersi in tutti gli ambiti della vita associata.

*Professore emerito di Economia all’Università di Genova

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