Ingenui digitali in cerca di educazione
martedì 7 febbraio 2017

Li possiedono 97 adolescenti su 100, convinti ormai di poterci fare ciò che gli salta per la testa, quasi costituissero una licenza per accedere a un’inebriante libertà senza freni, che comprende la possibilità di insultare gli altri (82%), diffondere immagini di chiunque senza autorizzazione (68%) o far girare video imbarazzanti su altre persone se già circolano (73%), come se la responsabilità si smaterializzasse con la condivisione di massa. Da strumenti di comunicazione a potenziali armi improprie il passo è breve. E in mano a molti nostri ragazzi (non certo a tutti) gli smartphone l’hanno già compiuto.

Ma la rassicurante convinzione che si tratti di un problema generazionale è destinata a dissolversi davanti a uno scomodissimo dato che l’odierna Giornata per la sicurezza del Web (il Safer Internet Day) si incarica di metterci sotto il naso grazie a un’utile indagine Ipsos: sottoposti alle medesime domande sull’uso dei cellulari, ragazzi e adulti finiscono per dare le stesse risposte, tutt’al più con lo scostamento di qualche punto percentuale, a cominciare dal quesito preliminare – 'possiedi uno smartphone?' – al quale i genitori rispondono di sì al 95%, in linea con i figli cui l’hanno regalato.

È il groviglio al cuore di una questione diventata tra le più socialmente rilevanti: le forme dell’utilizzo dei 'telefoni intelligenti' (misteriose creature tecnologiche metà computer ludici metà protesi digitali delle nostre relazioni) si sovrappongono al punto da non poter più distinguere l’approccio di ragazzi abbagliati da tanta potenza informativa e di adulti che si presumerebbero maturi e prudenti, e che invece si comportano come se avessero trent’anni di meno. L’effetto è la cancellazione radicale dell’idea che maneggiare una macchina sofisticata come quella che sta nel palmo di una mano sia un tema non solo legato alle competenze tecnologiche (come funziona?) ma anzitutto educativo (per che scopo lo uso?). Una consapevolezza che, laddove riaffiorasse, metterebbe i 'grandi' inesorabilmente davanti al proprio dovere: crescere ragazzi in grado di usare la testa e la coscienza prima di muovere le dita.

La rinuncia a educare quando si attiva uno smartphone – e persino l’incoscienza della necessità di farlo – è trasparente nella tabella della ricerca che mostra come il primo dispositivo mobile arriva nelle tasche dei figli a una media di 11 anni e mezzo, evidentemente recapitato da un adulto: parliamo di un’età che si abbassa a ogni nuova rilevazione e alla quale non faremmo di certo uscire i figli la sera senza accompagnarli, mentre gli consegniamo come in un rito liberatorio– 'ce l’hanno tutti...' – un concentrato di tecnologia che apre a ogni tipo di incontro e di frequentazione incontrollata. Cosa fa abbassare la guardia se non la condivisione dell’esperienza emotiva di uno strumento che sembra esercitare su quasi tutti un potere ipnotico? Genitori e figli convengono anche sul consegnarsi a un sistema di comunicazione che in cambio del consumo (apparentemente) gratuito di notizie, immagini e musica pretende la cessione di informazioni su se stessi, gabella inesorabile e pervasiva ma immateriale e inavvertita tanto da non suscitare perplessità nell’80% di entrambe le generazioni, disposte a tutto pur di non restare escluse dal grande intrattenimento digitale. Se poi è l’applicazione a esigere l’accesso ai nostri dati disseminati tra navigazioni e messaggi, nove volte su dieci non si esita a digitare 'ok' senza differenze di anagrafe, non attardandosi nella giungla delle condizioni d’uso.

È l’ingenuità 2.0, che attraversa età e condizioni sociali, come se la natura stessa dello smartphone – e i poteri magici che finiamo per attribuirgli – inducesse a sospendere le regole osservate per comportamenti analoghi nel mondo reale. Creando così forme di dipendenza dalle quali fatichiamo a sottrarci, finché qualche pessimo episodio di cronaca nera non induce un soprassalto temporeaneo di coscienza. Ma sotto il rimbalzo quotidiano tra una rete sociale e un’email c’è in attesa la chiamata a una nuova consapevolezza di essere, nel continente dei super-telefoni, semplicemente figli e genitori.

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