Indietro non si torna
giovedì 24 maggio 2018

Non illudiamoci. Lasceranno il segno le elezioni del 4 marzo, e questi due mesi passati nel tentativo di formare il governo che da ieri sera ha cominciato a prendere forma con l’incarico (accettato con la riserva di rito) al professor Giuseppe Conte. Lasceranno il segno.

Lo ha detto Matteo Salvini in questi giorni: ormai la linea di frattura è tra popolo ed élites. E come «avvocato del popolo» s’è subito presentato il presidente incaricato Conte. Ma cosa vuol dire questa affermazione? E come va interpretata? Ricapitoliamo un po’ i fatti che ci aiutano a capire dove siamo.
L’Italia ha smesso di crescere ben prima del 2008. È infatti sin dal 2000 (cioè quasi 20 anni!) che il Paese arranca. La ragione è chiara: nello scenario che si è venuto a creare alla fine del XX secolo, per poter proseguire sulla strada della crescita era necessario fare un salto di qualità: nella produzione, nella formazione, nella ricerca, nella pubblica amministrazione, etc.. Un salto che l’Italia ha fatto solo in parte, appesantita come era del debito accumulato negli anni 80 del Novecento oltre che dalla cronica litigiosità che contraddistingue il suo sistema politico. A queste incapacità interne si è poi sommato il vincolo esterno, rappresentato dalle regole associate alla moneta unica. L’ipotesi era che il vincolo europeo potesse aiutarci a fare i conti con i nostri difetti e che, dopo una prima fase difficile, il Paese avrebbe acquisito il passo necessario. Ma le cose non sono andate così anche perché nel 2008 è arrivata la crisi finanziaria globale che ha aggravato le difficoltà economiche e le sofferenze sociali.


Siamo un grande Paese, con tante risorse e capacità. E così abbiamo resistito a lungo. Poi è venuto Mario Monti, chiamato dal presidente Napolitano per “calmare” i mercati e l’Unione Europea ed evitare il crac. Il professore della Bocconi ha fatto la sua urgente parte, ma ha infine dimostrato di non avere un’idea di futuro: il suo partito (Scelta Civica) è evaporato e il suo contributo si è ridotto alla realizzazione di una politica di austerità che ha finito per scavare ferite ancora più profonde. Poi è venuto Matteo Renzi su cui tanti italiani hanno riposto enormi speranze. Per due anni, l’intero Paese si è affidato al giovane leader, poiché aveva capito che era un momento buono per ricominciare. Se vogliamo essere oggettivi, non si può negare che quel Governo ha fatto anche molte cose importanti. Ma Renzi ha commesso due errori gravi. Il primo: è che ha voluto fare tutto da solo, restringendosi sempre di più nel suo “giglio magico”, compiendo di forza scelte legislative che hanno frantumato tanta parte del suo consenso e lo hanno allontanato sempre di più dal Paese reale. Il secondo errore è di non aver capito il cambiamento della fase storica. Così che, invece di essere il più vecchio dei giovani, ha finito per essere il più giovane dei vecchi. Il suo modello di riferimento, infatti, era vecchio, il leader laborista Tony Blair, quando – al contrario – si trattava di diventare, in Europa, il capofila di una nuova sintesi tra crescita e integrazione, tra rigore e uso intelligente delle risorse pubbliche. Per questa ragione, la ripresa del Pil, per quanto importante, non è stata abbastanza forte. E così, dopo la sconfitta bruciante al referendum costituzionale, l’entusiasmo (fin eccessivo) verso Renzi si è trasformato un po’ per volta in una crescente ondata di risentimento. In una profonda crisi di sfiducia. Come se il Paese – o almeno la maggioranza degli italiani – avessero cominciato a pensare: basta, per la strada che abbiamo battuto negli ultimi 20 anni non si può più andare avanti. Occorre cambiare direzione.
Nasce da qui, oltre che dalle loro “promesse” anche molto difficili da mantenere, l’ampio consenso popolare nei confronti di Luigi Di Maio e dello stesso Salvini.

E se prima delle elezioni potevano esserci dubbi, oggi è chiaro che la saldatura c’è stata: mentre il Pd è impantanato nelle sue beghe interne accentuate dalla linea politicamente “aventinista” imposta da Renzi e Fi rimane avvinghiata a un Silvio Berlusconi che ormai ha perso mordente, il consenso dei due partiti “populisti” insieme supera il 50% della popolazione italiana. Ciò significa che non si tornerà più indietro. Tanto più se, come in questi giorni, proprio quelle élites che hanno contribuito negli ultimi vent’anni a portare il Paese nelle difficoltà in cui si trova, insistono ad accusare M5s e Lega di ogni nefandezza prossima ventura. Senza nessuna capacità di autocritica. Proprio così, non si tornerà indietro, ma bisogna saper andare avanti. E neanche i vincitori di oggi possono pensare di vivere di rendita. In questo momento, l’Italia è nell’occhio del ciclone.

La situazione politica che si è creata pare destinata a farci sbattere contro l’Unione Europea. E il programma di governo presentato è, in molte parti, un vero e proprio azzardo. Perché delle due l’una: o l’Europa di fronte al grido dell’Italia sarà capace di fare un passo in avanti (via difficilissima di cui non si hanno avvisaglie) oppure l’Italia pagherà carissima la “ribellione” e le nostre colpe storiche ci saranno ributtate addosso con costi che è difficile immaginare. C’è una via d’uscita? Difficile, difficilissimo. Anche se occorre provarci in ogni modo. Per noi e soprattutto per i nostri figli. Ma per provarci ci vogliono almeno due condizioni. La prima: uomini e donne disposte a parlare con parresia (cioè secondo verità e con piena franchezza) e per questo a pagare in prima persona e non semplicemente interessate a un piccolo tornaconto personale nel breve periodo. Cioè vere élites e non semplici politicanti. La seconda: una visione viva del futuro: l’epoca storica è cambiata. Occorre una ricomposizione nuova tra crescita economica e integrazione sociale. Occorre saper innovare con coraggio e saggezza. Nel presupposto che nessuno si salva da solo. Il tempo dell’individualismo radicale è finito, anche se troppi fingono di non vederlo e continuano a non capirlo. Siamo nell’epoca del legame sociale, del valore condiviso, del bene comune.

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