mercoledì 22 luglio 2009
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Le mani che lo strozzavano infine sono diventate le sue. Le sue stesse mani. Quelle che dall’ombra di uffici strani, di fi­nanziarie di copertura gli stavano toglien­do il sonno, il fiato, la gioia, infine sono di­ventate le sue stesse mani. La sua stessa corda. La sua stessa volontà di tirare la cor­da. Di stringere il cappio che altri gli ave­vano messo al collo. Quando un uomo la fa finita così verrebbe da pensare subito a sordide storie dei vicoli dei tanti sud del mondo e d’Italia. Ma non è così. Il tragico gesto del tabaccaio milanese ci mostra con l’evidenza che taglia il respiro che anche nel civilissimo, sviluppatissimo nord arri­vano le grinfie d’ombra di chi con il dena­ro si porta via anche la vita della gente. La rovina economica di quest’uomo è si­mile a quella che può capitare e capita a tanti. La via del credito regolare, l’insuffi­cienza di questo, l’anticamera dell’usura camuffata da uffici di un’allettante finan­ziaria che elargisce soldi. E poi il maledet­to imbuto. Da cui non è riuscito a risalire. Che l’ha risucchiato. Preso per i soldi, af­ferrato per i debiti, l’intero uomo, cuore mente corpo, è precipitato. In solitudine, come spesso accade. Senza far trapelare quasi niente ai familiari e ai vicini. Fino al­lo schianto della no­tizia finale. Come per non voler disturbare. O almeno per non di­sturbare troppo a lungo. Capita spesso. È in un certo senso comprensibile. È dif­ficile confidare a chi si ama il proprio fal­limento. Insomma, ha voluto che i suoi non guardassero la sua vergogna. Ha preferito, come in u­na specie di gesto d’amore estremo, eppure contraddittorio, dare il taglio netto. Evitare a loro il logora­mento che era stato suo. È evidente che storie come questa sono se­gnate dal maledetto crimine dell’usura – che sempre la Chiesa ha additato come u­no dei peggiori – così come sono segnate dalla solitudine. Quella del piccolo uomo d’affari. O del grande uomo d’affari. Solo con la sua impresa. O di famiglie che usa­no male il denaro. Senza senno, e senza confrontarsi con nessuno. Sempre più so­li specie quando l’impresa vacilla, non ce la fa. E mentre si stringe il cappio dell’usu­ra si stringe anche quello della solitudine. Le due mani che poi sono diventate le sue stesse mani. Perché la solitudine dell’im­prenditore – piccolo o grande – è la prima alleata dell’usura. Solitudine che a volte re­sta tale al di sotto di categorie, di associa­zioni di facciata, formali. In questo aumento di storie di soffoca­mento per usura (come documentano an­che i centri d’ascolto cattolici) c’è un av­vertimento. Per i governanti, per gli im­prenditori. E per i cittadini. L’usura è un male sociale. Vale a dire una cosa che am­mala tutta la convivenza. Perché gli usurai – grandi o piccoli che siano – ingoiano il la­voro, la fatica, e spesso la vita della gente. Lo stesso Dante Alighieri non cita mai suo padre e se ne vergogna perché forse fu u­suraio. Acquattati come coccodrilli in una società che fa del business e della riuscita una specie di legge non scritta, ferrea e mi­cidiale, eccoli pronti ad azzannare e a far sparire le loro vittime. Mentre non c’è nes­suna ragione al mondo per cui un uomo che non riesce a tirare avanti debba finire così. I debiti non possono diventare una condanna a morte. Né al sud né al nord. E se lo diventano è perché ai coccodrilli si so­no alleati solitudine e indifferenza. E la di­seducazione all’uso del denaro. No, il caso del tabaccaio milanese non è un 'caso'. Ma un sintomo. Grave. I signori dell’ombra sono ben piazzati o­vunque, anche nell’Italia che come si dice 'tira'. E stanno nutrendo il loro cancro. Si deve combatterli spietatamente, favoren­do la compagnia tra imprenditori e perse­guendo le finte finanziarie, spezzando i ten­tacoli e i denti. Quelli che il tabaccaio di Milano ha sentito, insopportabili, fin den­tro al cuore.
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