In Russia ha vinto la "democratura"
martedì 19 marzo 2024

Inutile nascondersi dietro un dito: al netto dei brogli – che sicuramente in parte ci sono stati – delle intimidazioni, della martellante strategia di persuasione che ha indotto una marea montante di cittadini della Federazione Russa a recarsi ai seggi, il plebiscito riscosso da Putin nella consultazione chiusa domenica che gli riassegna i pieni poteri fino al 2030 superando la longevità politica di Stalin convalida ciò che in fondo già sapevamo. Che cosa sapevamo? Che la Russia non è una democrazia. Non lo è mai stata, anche quando ha finto di esserlo, anche quando per un brevissimo istante ci ha provato. Al massimo è una democratura, inelegante neologismo nato per designare quei governi illiberali con forti venature autoritarie che apparentemente si presentano come democrazie parlamentari ma che di fatto assomigliano sempre più a delle dittature. Putin, che non a caso tutti chiamano “Lo Zar”, è esattamente questo. Il sogno rinnovato di un potere assoluto, che da Pietro il Grande a Josif Stalin attraversa come una gramigna inestirpabile l’anima russa e che l’attuale inquilino del Cremlino ha rivitalizzato facendo leva su due poderose categorie emozionali: la forza e il nazionalismo. La prima, riscrivendo la storia di un popolo che da oltre un secolo non ha mai perso una guerra, e che si nutre della necessità fisiologica di un nemico che bussa alle porte e che preme sui confini alimentando la paura e l’insicurezza. Il secondo, ammaliante aedo di una duplice nostalgia, quella della Grande Madre Russia zarista e quella del rimpianto degli anni precedenti il crollo dell’impero sovietico, che non a caso Putin stesso definì «la più grande catastrofe geopolitica della Storia», assegnando a Michail Gorbaciov la colpa imperdonabile di aver svenduto la Russia all’Occidente. Milioni di russi gli hanno creduto. E ci credono tuttora. Come ci hanno creduto dieci anni fa, quando proprio di questi tempi assistemmo al plebiscitario referendum che restituiva la Crimea alla Russia fra i cori dei giovani che esaltavano la volontà di potenza di Vladimir Putin. Con una macroscopica differenza: allora non venne sparato nemmeno un colpo di fucile, oggi l’Ucraina entra nel terzo anno di una sanguinosa guerra di invasione che ha decimato centinaia di migliaia di giovani, distrutto città, separato famiglie, annientato speranze e sottratto il futuro a un numero incalcolabile di persone. Nonostante ciò, nonostante la coscrizione obbligatoria e la carne da cannone che Putin ha ammassato sulla linea del fuoco dopo aver aggredito l’Ucraina, lo zar viene premiato con un voto che toglie ogni dubbio residuo: sull’impotente dissidenza, che viene dissolta con l’incarcerazione, l’oblio dei mezzi di comunicazione e nei casi estremi (ma non poi così rari) l’eliminazione fisica; ma anche sull’ipotesi che nel cuore della nomenklatura e del cerchio magico che circonda Putin vi sia la remota prospettiva di un ricambio al vertice. Perché questo ricambio non c’è, e i russi che lo hanno votato lo sanno bene. Anche quelli che, ispirati dalle ultime volontà di Alekseij Navalny, si sono messi in coda domenica alla stessa ora per affollare i seggi con il loro silenzioso serpentone, unica possibile dimostrazione di protesta nei confronti di un regime che la protesta non la può contemplare. In compenso l’anima nera delle democrature si può consentire una beffa postuma, come quella elargita da Putin a Navalny: «Stavo per liberarlo, a condizione che non tornasse più». Ironia gogoliesca da parte di un autocrate che ha riscosso i più ampi consensi proprio là dove - come nella Cecenia del brutale Ramzan Kadyrov - lascia mano libera ai potentati e ai khanati alla periferia dell’impero. Come del resto faceva Caterina la Grande. Che dire? Il plebiscito ottenuto da Putin non è un premio al buon governo del Cremlino, bensì una riconferma di quel patto non scritto fra il leader e i suoi sudditi, ovvero sicurezza e modesto benessere in cambio di libertà senza mai infastidire lo strapotere di una cleptocrazia che quasi nessuno ha la forza di sfidare. E chi lo fa, dalla Politkovskaja a Navalny ai tanti top manager petroliferi volati misteriosamente dal balcone, fino al mercenario Prigozhin, paga con la vita. Profetico fu a suo tempo Solženicyn, che così ironizzava: «Per scarsa dimestichezza e mancanza di abitudine, la democrazia in Russia è durata solo otto mesi. Giusto il tempo che dopo l’ottobre 1917 l’eccitazione rivoluzionaria si spegnesse e Lenin instaurasse la dittatura dei Soviet». Anche quella di Putin per i prossimi sei anni è garantita. O forse no, chissà. Anche i dittatori prima o poi sono costretti a inchinarsi al destino. Non disperiamo.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: