sabato 16 gennaio 2010
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Una fitta al cuore. Un contraccolpo che serra le labbra e dilata le pupille. Ecco cos’è Haiti per noi, in questi giorni. Una concatenazione d’immagini che si attivano d’istinto e conducono là dove non si vorrebbe andare, nella terra devastata del nostro cuore, a Port-au-Prince distrutta dal terremoto, a chiedersi: quali mani pressate dalla pietra non possono levarsi a chiedere soccorso? quali voci, sempre più fioche, stanno perdendosi lì sotto, senza che alcun amore, alcuna disperazione gridi loro di non spegnersi, di resistere al sonno della morte, di aspettare che altre pietre e masse vengano tolte loro da sopra? quali madri stanno strette lì, in condizioni inimmaginabili, senza sapere se due metri più in basso, sotto la parete e il soffitto crollati, si è spento o sta spegnendosi il frutto del seno loro?Per noi abruzzesi Haiti è più dura da vedere. È un dejà vu, orrendamente amplificato, del sisma del 6 aprile 2009 all’Aquila, con "soli" 308 morti. E con una terrificante certezza: non c’è stato nessuno a soccorrere quella terra tanto più duramente colpita, nelle prime ore. Nessuno pronto a intervenire da ogni parte, com’è stato da noi, con un’organizzazione avanzata e civile. Adesso ad Haiti stanno arrivando i primi soccorsi, recando notizie di un aeroporto su cui gli aerei non riescono quasi ad atterrare.E poi ci sono le altre domande, che prendono una direzione verticale: perché doveva succedere proprio lì, nel Paese più povero del Centroamerica dove il disastro mieterà, a mani basse, un più alto tributo in vite umane, oltre le decine di migliaia già mietute, che si sarebbero salvate altrove? Quale malefica casualità ha colpito dove più debole è la struttura della società umana? E perché nell’area a più alta densità abitativa, la capitale con 2 milioni di abitanti, anziché in un’area meno popolata?Sono domande destinate a restare senza risposta.Però Qualcuno disse, 2000 anni fa: «I poveri li avrete sempre con voi»; e non si riferiva alla povertà economica, né all’illusione, travolta dalla storia, di una società senza ricchi e senza poveri, giacché la povertà di cui parlava era un’altra, era l’umanità in sé – coi suoi eterni corollari: fragilità vulnerabilità caducità mortalità – condizione di esilio dal Suo regno. A queste parole, soltanto, possiamo affidarci per trovare un senso alla tragedia di Haiti e rammentare il comandamento di farci prossimo agli altri e di agire, concretamente, ora e da qui, senza abbandonarci all’inerzia.Solo questo può avvicinarci alle madri di Haiti sepolte sotto le rovine che chiamano senza voce. Ai loro occhi che si spengono e non vogliono spegnersi. Alle loro braccia che resistono al lungo sonno per stringere, un’ultima volta e come tante altre, i bambini.Oltre questo imperativo morale di agire, noi non possiamo andare, né è lecito interrogarci. Se volessimo farlo, gridando per Haiti le parole di un grande poeta del 1900, Wallace Stevens, abbracceremmo, per mai lasciarla, ogni sepolta madre di Haiti «nel cui ardente seno ravvisare/ ogni nostra madre terrena/ che vegli insonne, oltre il tempo, per noi».
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