venerdì 28 agosto 2009
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C’è un modo di dire che ricorre sui media quando va fatto sapere che in qualche ospedale s’è verificato un fattaccio. Si parla, in questi casi, di "malasanità", un’etichetta che però negli ultimissimi giorni a fronte del drammatico affastellarsi di pessime nuove dal fronte sanitario rischia di suonare come uno stratagemma semantico: a causare errori anche letali sulla pelle dei pazienti sarebbe così un virus invincibile e vaghissimo. Nessun responsabile, zero esami di coscienza, passiamo ad altro. Spesso tuttavia non si tratta affatto di semplici errori o di incidenti: sono, invece, le faglie che si spalancano improvvise là dove il sistema appare più fragile, e che sarebbe un errore dimenticare da domani in attesa della prossima "emergenza". Sono le vittime stesse di questi episodi talora risolti tragicamente – ne abbiamo contati una decina solo in agosto – a impedire di limitarci al vivo scandalo d’occasione. Ce lo impone ad esempio – citiamo l’ultimo fatto, affiorato ieri in Sicilia – Filippo Li Gambi: aveva 23 anni, s’è schiantato l’altra notte in moto, ma all’ospedale di Mazzarino dove l’hanno portato la sala operatoria non era attiva. E a Caltanissetta Filippo è arrivato troppo tardi. Perché quella sala chirurgica era chiusa? E perché è chiusa da un mese anche la sala parto dell’ospedale di Niscemi – stessa provincia siciliana –, con trenta gestanti costrette a vagare per altri nosocomi dell’isola in cerca di un reparto che le accolga? E come mai tra lunedì e martedì Antonio Caligiuri è stato abbandonato per ore nel pronto soccorso dell’ospedale Pugliese di Catanzaro, senza che nessuno si accorgesse che stava morendo? Il bollettino si fa ancor più angoscioso: a chiederci di fare pulizia è anche Sara Sarti, 5 anni appena, che martedì l’ospedale di Locri ha rimandato a casa sottovalutando i sintomi che poi l’hanno uccisa in poche ore (ma già si parla di altri cinque decessi "anomali" in Calabria).Una piaga infetta che ferisce solo il Sud, allora? Non proprio. È di mercoledì la storia di Glenda Cavalli, 28enne piacentina affetta da tetraparesi spastica: in giugno il pullmino che la portava in un centro per disabili ha subìto un incidente e Glenda ha battuto la testa, ferendosi. Sembrava un problema rimediabile: ma da quando in ospedale le hanno praticato un’iniezione antitetanica, Glenda ha cominciato a peggiorare, lei che era sempre stata bene, fino a morire giovedì scorso, dopo due mesi di calvario.La magistratura acquisisce dati, cerca, interroga: ed è bene che, senza esitare, identifichi negligenze, omissioni, incompetenze, che quando è in causa la vita umana moltiplicano la loro gravità. Ma, sul piano culturale, a dover fare i conti con se stessa pare oggi anzitutto la professione medica, che in corsie e reparti dove si consumano drammi come quelli imposti dalla cronaca si sta giocando la fiducia della gente, ovvero il tesoro che dovrebbe difendere più tenacemente. Colpisce allora il silenzio ufficiale di una categoria che ancora di recente, nelle sue istanze federative nazionali, ha invece mostrato di parlare molto volentieri, anche frettolosamente, di beni e questioni su cui era più prudente tacere. La «leggiadria» verbale è un vento lieve che quando comincia a spirare non lo governi a comando.Quale concetto hanno i medici del patto fiduciario che li lega alla comunità e che li vincola al giuramento ippocratico (tutto intero) a prescindere dalle loro convinzioni personali? Non sentono il dovere di dire una parola chiara su episodi che anche solo per il loro ripetersi non vanno rimossi allargando le braccia? No, non è più "malasanità": nella coerenza indiscutibile con cui si deve mostrare di voler proteggere la vita di qualunque paziente si decide il futuro di un’intera professione.
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