mercoledì 18 maggio 2011
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La ricetta per risolvere il problema della laicità? È presto detto: basta decidere in senso opposto alle indicazioni della Chiesa; anzi: della «Curia d’oltre Tevere». Questa in pratica, se ho ben capito, l’opinione di Tullio Gregory, che ha scritto sul "Corriere della Sera" del 15 maggio sul «perché un dibattito sulla laicità in Italia è (quasi) impossibile». In realtà, non capisco il senso del riferimento alla «Curia d’oltre Tevere»: e perché non al magistero pontificio? Perché non agli insegnamenti dell’episcopato italiano? Perché non a sentire diffusi nella comunità cristiana (e non solo)?Ma torniamo alla laicità. In realtà quella proposta appare una ricetta debole debole, per non dire inconsistente, giacché se per laicità si intende – come sembrerebbe pensare Gregory – la neutralità nelle scelte politiche e del legislatore, non si può fare a meno di rilevare che il rifiuto delle posizioni di una parte per abbracciare quelle dell’altra, contrapposta, non è mai scelta neutrale, ma è pur sempre una scelta di parte. Dunque una scelta non laica.Del resto le opzioni politiche o quelle legislative sottendono sempre una opzione tra posizioni valoriali diverse. Sicché neutralità in politica, così come nel diritto positivo, è utopia; è come la mitica araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa.In realtà la laicità è innanzitutto metodo dialogico, di confronto delle diverse posizioni di pensiero, di ascolto critico delle ragioni dell’altro, di rifiuto di ogni posizione a priori, di accettazione a rivedere i propri convincimenti. È, insomma, ricerca di una soluzione dei problemi seguendo ragione e non passione. Come incisivamente ha scritto Benedetto XVI nella sua prima enciclica, la Deus caritas est, «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neppure restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare» (n. 28).Il paradigma richiamato nell’articolo è, naturalmente, quello francese. In realtà i nostri cugini d’Oltralpe da tempo stanno ripensando le proprie posizioni sulla laicità: dagli orientamenti giacobini da Terza Repubblica sottesi alla aggressiva laïcité de combat, alla non conflittualità della laïcité apaisée, fino a quella laïcité de l’intelligence, cioè a quella laicità comprensiva del fatto religioso, che marcatamente emerge anche dai più recenti interventi del presidente Nicolas Sarkozy, laddove parla di «laicità positiva». Del resto, la notissima questione del porto di simboli religiosi a scuola, scatenata dal velo islamico, ha toccato piuttosto il terreno controverso di come integrare nel contesto francese gli immigrati di cultura islamica, che non quello più definito della laicità.Quanto poi alla questione scolastica, che Gregory evoca ponendo sostanzialmente l’equazione tra scuola statale e scuola laica, la laicissima Francia dal 1959 prevede, attraverso la legge Debré, il finanziamento pubblico delle scuole non statali, quelle promosse da privati cittadini e anche in ambito confessionale. Ma da noi un tale finanziamento della scuola non statale è sempre stato ritenuto da molti addirittura contrario alla laicità dello Stato.In realtà, oltre al modello francese, esistono nel mondo più idee ed esperienze di laicità: si pensi a quella alta (e spesso malintesa) contenuta nella nostra Costituzione che, secondo l’insegnamento della famosa sentenza costituzionale del 1989, «risponde non a postulati ideologizzati e astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato-persona», ma «si pone a servizio di concrete istanze della società civile e religiosa dei cittadini».
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