mercoledì 11 gennaio 2012
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Sulla tv in un bar di una qualunque strada di Milano passa la faccia di una ragazza giovanissima, bionda, immobile nel sorriso di una istantanea scattata in un giorno lieto. Dal banco gli avventori girano la testa verso lo schermo, la tazzina del caffè sospesa davanti alla bocca: Sarah, comincia il processo per Sarah. A Taranto, la folla dei curiosi preme fuori dall’aula. «Sono venuto qui per vedere da vicino gli imputati. Bisogna vedere questa gente, come è fatta», dice all’agenzia Ansa un pensionato, in coda. E in quello sconosciuto, anche se non ci piace dircelo, c’è una parte di noi. Gli uomini non tornano volentieri su un dolore che li abbia personalmente straziati; ma negli eventi rappresentati su uno schermo è facile quella estraneazione, per cui una morte non è più oggetto di pietà. Si moltiplicano i dibattiti con gli stessi 'esperti' che si ripetono le stesse domande e le stesse risposte. Il pubblico, a giudicare dagli ascolti, resta a guardare. A guardare che cosa? «Bisogna vedere questa gente, com’è fatta», dice il vecchio fuori dall’aula. Come già supponendo che quella gente sia del tutto diversa da lui. Che i «mostri» siano mostri, e le persone normali tutta un’altra umanità; rassicurante idea, che tranquillizza. Noi gente onesta, e quelli un’altra razza, altri da noi. Sembriamo ricercatori che in un vetrino, al microscopio, analizzino le spore di un maligno microrganismo; sereni nel nostro camice bianco, nei guanti di lattice che ci preservano da ogni possibile contagio: «Bisogna vedere questa gente, com’è fatta». Ma perché, se quelli dietro le sbarre ci sono così estranei, ci interessano tanto? Certo, è abnorme una famiglia Misseri, dove gli affetti più stretti vengono rinnegati e annientati per gelosie o rancori che, si scoprirà probabilmente, sono così da poco rispetto alla mole del male compiuto. Ma di quelle stesse gelosie e invidie, non siamo capaci anche noi, gente normale, che non finiremo mai in corte d’Assise? Sembra quasi che il seguito ossessivo a vicende come quella di Avetrana nasca da una strana curiosità, da una voglia di affacciarsi, pure tenendosi bene al parapetto, sull’orlo di un abisso così buio che non se ne vede il fondo. Cosa c’è laggiù, che cosa ha governato e diretto fino a un simile delitto delle donne, degli uomini fino a quel giorno innocui, banali, addirittura? I crocchi fuori dalle case dove è scorso del sangue ci sono sempre stati, e sempre nei paesi, per anni, ci si è fermati ad additare certe finestre: «È successo lì», dicevano i vecchi ai più giovani. Ma il sistema mediatico come in un gioco di specchi moltiplica quelle finestre, ce le passa e ripassa sotto agli occhi come in una moviola ossessiva. La voragine solletica, gli sguardi si incollano. Nietszche, che di oscurità se ne intendeva, avvertì: «Quando guardi l’abisso, l’abisso ti guarda». E quindi è meglio non fermarsi troppo a lungo. (Meglio non essere così certo che il male da vertigine di Avetrana non sia, all’origine, della stessa pianta che abbiamo tutti, come un seme, dentro). Memoria sgradevole, da cui cerchiamo di distrarci. Il male, preferiamo raccontarci, è solo quello a noi lontano, quello deforme di un delitto oscuramente covato in una famiglia; e noi a guardare da dietro la nostra lente - estranei, crediamo. Perfino in un momento collettivamente grave e drammatico come questo, i nostri occhi si fissano su quella madre, quel padre, quella figlia. I «mostri» distraggono, allontanano angosce più prossime. Ci sporgiamo oltre l’orlo, nel vuoto - come fossimo al cinema, e il sangue, finto. Solo un’ombra di angoscia che ci resta addosso, dopo, sembra dire ostinata che anche nel tempo dei mille specchi mediatici quel buio intravisto, spiato riguarda, nel profondo, anche noi.
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