mercoledì 15 marzo 2017
Risaie in rivolta. Coldiretti: troppe concessioni sui dazi
Il vento neoprotezionista delle campagne italiane
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La Fiera in Campo si celebra ormai da quarant’anni e gli agricoltori che affollano i suoi capannoni, in mezzo alle risaie vercellesi, ne hanno viste tante. Qualcuno ha conosciuto Bonomi, che veniva da Novara e ha fondato la Coldiretti. I più giovani, invece, sono figli della Mac Sharry, la riforma che inaugurò la globalizzazione in Europa: quando si gestiscono aziende da centinaia di ettari, il ricambio generazionale rallenta e i millennials diventano titolari dell’azienda solo se c’è un finanziamento che impone il passaggio del testimone. Oggi, nelle campagne italiane si forma il 2,3% del valore aggiunto nazionale – che diventa il 15% se si considera anche l’industria agroalimentare –, si crea lavoro per 812.000 persone (14,2% stranieri) e, diversamente da altri comparti, si redistribuisce la ricchezza sui territori. Eppure, basta spostarsi a Vercelli, ossia qualche chilometro da Caresanablot dove si è tenuto il raduno dei risicoltori, per cogliere un totale disinteresse verso la vera culla del made in Italy.

Disinteresse e un pizzico d’ignoranza: la più parte dei “cittadini” crede che nelle risaie lavorino ancora le mondine e non si capacita di come quegli stessi agricoltori che negli anni Settanta giravano in Mercedes adesso fatichino a pagare concimi e diserbanti. Basterebbe consultare i listini del risone o quelli del mais, in profondo rosso da qualche anno, per comprendere che la crisi dell’agricoltura italiana è legata a filo doppio alle dinamiche della globalizzazione: chi produce commodities nei Paesi sviluppati è come un pugile con le braccia legate, dal momento che deve competere con Paesi in cui il costo del lavoro e le norme ambientali sono radicalmente diverse. «Riso, conserve di pomodoro, olio d’oliva, ortofrutta fresca e trasformata sono solo alcuni dei prodotti stranieri che arrivano in Italia e che sono il frutto di un “caporalato invisibile” che passa inosservato solo perché avviene in Paesi lontani» ha denunciato ieri la Coldiretti, spiegando che ci sono operai agricoli «sottopagati e sottoposti a rischi per la salute, detenuti o addirittura veri e propri “schiavi”» dietro le produzioni che importiamo a dazio agevolato sotto la bandiera della cooperazione.

«L’ Europa con una mano taglia i dazi ai Paesi asiatici e i prezzi del risone crollano, ma con l’altra ci vieta di usare i fitofarmaci che i nostri concorrenti possono usare e ci impone norme che fanno esplodere i nostri costi, buttandoci fuori mercato. Chiediamo che siano reintrodotti i dazi o cambieremo mestiere» sintetizza Piero Mentasti, uno dei leader del movimento di protesta #ildazioètratto, portabandiera del sentimento neoprotezionista (e antieuropeista) che sta montando nelle risaie. Stasera si riuniscono ad Asigliano Vercellese. Sarebbe un errore considerarli frange No Tav: sono piuttosto le avanguardie di un malumore che serpeggia nella base agricola del Paese. Tant’è vero che la Fiera in Campo è stata aperta dai giovani dell’Anga con la richiesta di una soluzione Trump – congelare le esenzioni daziarie concesse ai Paesi meno avanzati per salvare il riso italiano, leader produttivo in Europa – mentre i “seniores” di Confagricoltura considerano ancora l’apertura di nuovi mercati «una priorità imprescindibile», come hanno sottolineato a proposito dell’accordo con il Canada, bocciato invece dalla Coldiretti. Politicamente scorrettissimi, gli agricoltori italiani stracciano il velo di ipocrisia che per anni ha coperto le contraddizioni della globalizzazione: la cooperazione danneggia le produzioni europee e la liberalizzazione commerciale è una partita doppia in cui c’è chi vince e chi perde. Spenta la bella vetrina dell’Expo, riemerge la cruda realtà di un made in Italy industriale che corre e di un made in Italy agricolo che soffre. Il punto di rottura è la dichiarazione di origine della materia prima – storica battaglia della “bonomiana” – che per molti prodotti non è obbligatoria e permette all’industria agroalimentare di vendere per italiano ciò che è stato solo trasformato o soltanto confezionato nel nostro Paese, ma che nasce da materie prime d’importazione.

Non è solo un problema dei risicoltori. Il pomodoro da industria è una filiera da 8mila imprenditori, 72.000 ettari e 120 industrie, 10mila addetti, una produzione che vale più di 3,3 miliardi. La “pummarola” è uno dei simboli del made in Italy, eppure milioni di piatti di pasta e di pizze sono conditi con pomodoro cinese o, quando va bene, americano. Colpa di un escamotage inventato per aiutare l’industria. Si chiama traffico di perfezionamento attivo: un prodotto può entrare nel mercato europeo senza pagare dazio a patto che venga lavorato qui per essere poi commercializzato fuori dai confini europei. Poiché per legge è obbligatorio dichiarare l’origine della passata di pomodoro ma non dei sughi pronti e delle varie conserve, diventa molto difficile stabilire se il condimento utilizzato in un ristorante o venduto in un supermercato provenga da quei cinque e rotti milioni di tonnellate di pomodoro cresciuti nei nostri campi oppure dalle 168mila tonnellate di concentrato triplo che importiamo e che equivalgono a oltre un milione di tonnellate di prodotto fresco. Secondo Coldiretti nel 2016 le importazioni sono aumentate del 43% e il prodotto cinese costa dal 20 al 30% meno di quello nazionale; tuttavia, ogni anno, gli industriali del settore invitano gli agricoltori a contenere le semine per non “squilibrare” il mercato.

La “pummarola” serve a condire una delle voci più importanti del nostro export, ma un piatto di pasta ogni tre è prodotto con frumento canadese o di altre provenienze: il grano duro italiano paga la carenza di depositi di stoccaggio nel Mezzogiorno, dove si concentra il 72% dei raccolti, anche se i consorzi agrari di Cai e Filiera Agricola Italiana stanno investendo grosse cifre: «Non ci limitiamo a costruire dei nuovi magazzini – spiega Emanuele Occhi di Consorzi Agrari d’Italia –; vogliamo orientare l’offerta alla domanda e ciò vuol dire anche riorganizzare la rete dei consorzi, soprattutto nel centro-sud, per modernizzare e potenziare le dotazioni logistiche. Abbiamo poi dei contratti di filiera che consentono di stabilizzare il reddito agricolo e contrastare la volatilità dei prezzi. Anche il fondo per il grano duro creato dal governo, con una dotazione di 10 milioni di euro, va in questa direzione, ma è insufficiente a risolvere il problema». Ogni anno, escono dagli stabilimenti italiani 3,2 milioni di tonnellate di pasta che generano circa 4,6 miliardi di euro, però importiamo 2,3 milioni di tonnellate di grano duro: quello che raccogliamo (4,9 milioni di tonnellate) non basta o non possiede la qualità necessaria, così dal 2012 al 2015 l’import è cresciuto del 64%. Coldiretti spinge per l’etichettatura anche in questa filiera – sulle confezioni di pasta secca prodotte in Italia dovrà essere indicato il Paese in cui è coltivato il grano e quello in cui è macinato – e punta il dito contro la generosità pelosa di Bruxelles, che per incentivare l’export di altri settori ha azzerato i dazi sul grano. «L’Europa è titolata a concedere esenzioni daziarie ai Paesi terzi – spiega il responsabile economico Lorenzo Bazzana – ma per ottenere lo stesso da quei Paesi i singoli Stati europei debbono intavolare negoziati successivi, ovviamente svantaggiati dal fatto che le concessioni sono già avvenute. Così, sono anni che tentiamo di raggiungere il mercato cinese con i nostri agrumi, ogni volta frustrati da barriere fitosanitarie. Speriamo che il 2017 sia l’anno buono».

L’ultimo embrassons nous è con il Vietnam, ma la madre di tutte le concessioni è l’iniziativa Eba del 2001, che ha aperto il mercato europeo ai prodotti dei Paesi meno avanzati, azzerando i dazi; ha talmente sconquassato il mercato interno delle commodities che la Commissione europea nel 2012 ha dovuto ammettere «la necessità di riformare il sistema». La crisi del riso è figlia di questa direttiva, per effetto della quale le importazioni di Cambogia e Myanmar sono passate da zero a 1,34 milioni di tonnellate. Parallelamente, il prezzo del risone italiano si è dimezzato e l’anno si chiuderà con enormi stock di invenduto. Il paradosso è che il sacrificio non porta benefici ai contadini dei Paesi in via di sviluppo, mentre conduce alla chiusura delle nostre imprese. Dal 2008 al 2012, nonostante un incremento esponenziale delle esportazioni cambogiane, il prezzo della materia prima italiana è sceso di 223 dollari alla tonnellata e quello pagato ai contadini cambogiani aumentava solo di 20. Attualmente, secondo l’associazione dei laureati in agraria della provincia di Vercelli, «il prezzo medio del risone non riesce nemmeno a coprire i costi di un’azienda agricola da 300 ettari». Se non che l’86% delle imprese risicole italiane non raggiunge i cento.

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