giovedì 11 agosto 2016
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Ci vuole coraggio, o forse solo buon senso, per capire che le lezioni migliori nello sport come nella vita sono di solito le più dure; e che spesso fra queste ultime c’è la sconfitta. Difficile spiegarlo oggi a Federica Pellegrini. L’altra notte, mentre l’Italia sbadigliava pur di non perderla in tv, lei ha trovato una vasca troppo lunga. Quarto posto nella gara più attesa, che alle Olimpiadi è come la fetta di torta che non trovi più quando arrivi in ritardo, l’ultimo metrò della sera che ti chiude le porte in faccia.

Federica è uscita dall’acqua come se quel liquido fosse piombo che brucia. Affranta, ipnotizzata, distrutta. «Basta, forse è il momento di cambiare vita». Lo ha detto lei, lo temevano in tanti. Che però l’hanno perdonata subito, accarezzandola col pensiero di tante altre emozionanti vittorie. «È un male così forte che poche volte l’ho sentito…». Sembra la firma sotto un testamento la sua, una fine troppo amara per essere comprensibile. Come si può considerare devastante un quarto posto ai Giochi ottenuto a 28 anni, quando per il nuoto non sei vecchio, ma quasi anziano sì? Come si può trasformare una non-vittoria in una tragedia, quando il messaggio sportivo di un’impresa resta comunque bello, solare, accettabile? È un problema di testa. La nostra, oltre che la sua.

 

Noi "medagliomani" incalliti, abituati a ragionare in base ai podi e non alla storia personale di uomini e donne che hanno fatto la leggenda dello sport. E che ci regalano da sempre esempi di tenacia e di coraggio che non meritano di finire in lacrime.Eppure quelle sembrano la costante liquida di queste Olimpiadi. Dalla disperazione di Pellegrini al pianto inconsolabile di Edwige Gwend, l’azzurra del judo che ha versato ore di lacrime per una sconfitta nella sua gara probabilmente condizionata da un grave errore dei giudici. Facile obiettare seduti in poltrona, certo. Sono loro e non nostri i quattro anni di sudore e sogni infranti in un secondo. Loro i sacrifici, la mostruosa determinazione che serve per arrivarci ai Giochi, o a qualunque altra manifestazione per i pochi, straordinari, che ce la fanno. «Abbiamo fatto grandi cose, ma nessuno si ricorderà di questa squadra», dissero piangendo a dirotto gli azzurri del calcio – loro comunque ricchi e famosi – dopo l’eliminazione dal recente Europeo. Perché, che si chiami Buffon o Edwige Gwend, uno sportivo sa di aver diritto all’infelicità, almeno tanto quanto ai sogni di gloria.

Poi, qualche ora dopo, la parziale retromarcia: «No, non può finire tutto così». Ecco, Federica Pellegrini, oggi probabilmente ha solo bisogno di un’isola dove riposarsi un po’, non di un forno dove andare a soffiare sulla sua disperazione sportiva. È sempre stata così: bambina e donna, pinne e tacco 12, orgoglio e dolcezza, tatuaggi e vittorie. Esaltata dai sensi, figlia delle sensazioni. Perché l’acqua è impermeabile solo a parole. Per anni si è portata sulle spalle il peso di uno sport che al femminile ha dovuto reggere da sola: sola nelle sue sfide, sola a lottare contro mondi e nazioni che dietro hanno sempre nuovi eredi e altre scelte. Ora, se davvero deciderà che è il momento di fermarsi, potrà liberarsi di quel fardello.

 

E fra molti anni capirà di dover raccontare ai nipotini che alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, nei 200 stile libero, la sua gara, quella che ancora oggi nessuna donna al mondo ha mai nuotato più velocemente di lei, è arrivata quarta, «a un solo passo dal podio olimpico». Solo dopo le prime tre, più giovani di lei e con milioni di bracciate in meno nella testa. Gli anni, come sempre, mitigheranno i giudizi del presente, l’asciugamano della storia tratteggerà linee diverse agli avvenimenti di oggi. E a lei e a noi sarà davvero dato di capire che, domani, anche i quarti non saranno gli ultimi.

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