sabato 2 aprile 2011
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Non ce l’abbiamo con il Parlamento ridotto a teatro. Ce l’abbiamo con il fatto che quel teatro, quella gazzarra stanno raccontando una storia di impotenza. Di vanità. Una storia di im­mobilità. Una brutta storia. Una storia che non dovrebbe essere la nostra, adesso. Proprio in que­sti momenti. Con questi problemi alle porte, e dentro le porte.L’espressione «il teatro della politica», a me non ha mai scandalizzato. Non solo perché noi italia­ni siamo temperamenti che tendono al 'teatra­le' in tutti i campi del vivere. Ma anche perché la politica è inevitabile teatro di passioni, di con­trasti, di tensioni. Chiunque ha avuto anche so­lo una pur minima frequentazione di riunioni di condominio, o consigli di classe, o di facoltà, beh, si sarà accorto di quanto sia facile per gli italiani – tutti, non solo i politici – inscenare con maggiore o minore talento le proprie passioni o le difese dei propri interessi. Ricordo mio nonno, un roma­gnolo liberale, seduto davanti allo schermo del­la televisione durante non so quale votazione par­lamentare bofonchiare: «Onorevoli? Lavandaie!». In modo colorito, dunque, già quaranta anni fa gli italiani esprimevano – come dal loggione di un teatro di lirica – approvazione o disappunto da­vanti allo spettacolo della politica. Fa parte della nostra storia, della nostra natura. Già gli antichi romani non si facevano mancare scenette e sce­neggiate. Il problema dunque non è la teatralità di certi gesti. Ma il fatto è che ci stanno raccon­tando una storia poco interessante.Gli schiamazzi non coprono, non riescono a co­prire un’amara verità: ci stanno offrendo una sto­ria mediocre. Una storia lenta, una storia poco av­vincente. Il fatto stesso che si passi da gesti colo­riti a gesti che invece sono volgari od offensivi è il segno che – come dicono gli amanti del teatro – la storia messa in scena non 'tiene'. Non c’è pathos, ma agitazione. Non c’è passione, ma sur­riscaldamento. Non ci sono grandi maschere, co­miche o tragiche, ma macchiette. E la storia non va. Ristagna. Solita zuppa. E infatti, come è stato notato, gli spettatori abbandonano.Al di là della cerchia stretta dei fan, si allarga il de­serto di interesse e di coinvolgimento con la po­litica. Possibile che i nostri attori principali non se ne accorgano? Troppo facile e sbagliato ad­dossare la responsabilità di tutto questo a uno so­lo, o a un singolo schieramento. Lo stanno scri­vendo a più mani il copione, sono vari e varia­mente disposti i drammaturghi. Alcuni di loro dicono che questo spettacolo a loro stessi non piace. E però lo fomentano. Incanalano la storia messa in scena verso esiti scontati, ripetitivi. Noiosi e vani. E così in questa specie di impo­tenza, di impotenza doppia – del governo a fare il governo, delle opposizioni a fare le opposizio­ni – cresce la stizza, la frustrazione. La scena del­la doppia impotenza, della raddoppiata immo­bilità non offre una storia interessante. In un mo­mento in cui il nostro Paese avrebbe invece bi­sogno di un’altra velocità. Di scattare in avanti su problemi gravi e diffusi.  Se fossimo davanti al solito momento efferve­scente, teatrale, pure colorito della politica italia­na, non ci sarebbe da rammaricarsi tanto. Non ci sarebbe da preoccuparsi. Ma l’impressione è che invece si stia consumando qualcosa di diverso: le avvisaglie della chiusura del teatro. Le convulsio­ni della crisi finale. Si rischia la riduzione degli spa­zi dove viene gestita la democrazia a robetta po­co interessante. Di questa politica si potrebbe di­re quel che diceva il grande poeta Baudelaire a proposito di alcuni spettacoli a cui assisteva in certi teatri: la cosa più interessante è guardare il lampadario. E se cominciano in tanti a guardare il lampadario, può voler dire solo due cose: che si fa largo una agghiacciante perdita di stima nella democrazia, o che la vera storia va in scena altro­ve, in altri palazzi, in altri occulti teatri.  In entrambi casi non è un buon segno per que­sta Italia che avrebbe bisogno di una storia più movimentata e meno caotica, più slanciata al fu­turo e meno ripiegata. Non di meno teatro, dun­que, c’è bisogno. Ma di una storia più bella.
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