martedì 21 luglio 2015
Il sogno di giustizia globale bloccato dalle «ingiustizie». L'Africa: noi discriminati. (Paolo M. Alfieri)
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C’è stato un tempo non molto lontano in cui una fetta di mondo pensava di aver trovato lo strumento adatto per combattere despoti e criminali di guerra e rendere giustizia a vittime di stupri, torture e genocidi. La Corte penale internazionale (Cpi), tribunale con sede all’Aja, entra in funziona nel luglio del 2002. Tredici anni dopo, però, quella Corte e forse la stessa idea di un organo giudiziario che abbia competenza sovrannazionale è in forte discussione. La Cpi, insomma, sembra già ad un bivio, con l’Africa in particolare a guidare la 'rivolta' per una presunta parzialità dei giudici dell’Aja.   L'ultimo colpo contro la credibilità del tribunale l’ha assestato il governo sudafricano, che ha annunciato l’ipotesi di ritirare la sua adesione alla Cpi dopo le polemiche seguite alla partecipazione del presidente sudanese Omar el-Bashir al vertice dell’Unione Africana di Johannesburg. Antefatto: su Bashir pende dal 2009 un mandato di arresto per crimini contro l’umanità e genocidio nella regione sudanese del Darfur. Gli arresti decisi dalla Cpi devono essere eseguiti dai 123 Stati che hanno siglato lo Statuto di Roma, il documento che ha sancito l’istituzione della corte. Tra i 123 membri c’è proprio il Sudafrica. Il governo di Jacob Zuma aveva però garantito l’immunità a tutti i partecipanti al summit dell’Unione Africana, così ha addirittura ignorato un ordine della Corte suprema di Pretoria – che intendeva bloccare Bashir nel Paese – e permesso al leader sudanese di tornarsene indisturbato a Khartum con un volo decollato da un aeroporto militare.   In Sudafrica non sono mancate le polemiche e le critiche contro il governo. Nel 2012 l’allora presidente del Malawi Joyce Banda si era rifiutata di ospitare un analogo summit dell’Unione Africana: la stessa Ua richiedeva l’immunità per tutti i capi di Stato, ma il governo di Lilongwe non intendeva ospitare Bashir. Dopo quanto accaduto a Johannesburg, però, molti capi di Stato africani non hanno nascosto la loro soddisfazione e ne hanno approfittato per ribadire che la Cpi ha un vero e proprio pregiudizio nei confronti dell’Africa. Vero? Falso? Quello che è sicuramente vero è che in questi anni la corte ha avviato procedimenti giudiziari relativi a sette Paesi e che questi sette Paesi sono tutti africani. Basta questo per tacciarla di razzismo e pregiudizio? C’è chi dice: anche l’ex presidente Usa George W. Bush, dopo aver invaso l’Iraq senza un’adeguata risoluzione Onu, avrebbe dovuto essere accusato dalla Cpi di crimini di guerra. Si dimentica, però, che la corte dell’Aja ha giurisdizione solo sui 123 Paesi membri, e colossi come gli Usa, la Cina o la Russia non hanno mai – e non è un caso – messo la loro politica estera (né tanto meno interna) nelle mani di un tribunale internazionale. Anche il Sudan non ha firmato lo Statuto di Roma, ma il caso del Darfur è stato deferito alla Cpi dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, intervenuto in questo senso anche contro la Libia di Gheddafi.   E per quanto riguarda le altre inchieste della Cpi? In quattro casi l’intervento della Corte è scattato su richiesta dei Paesi interessati. Repubblica centrafricana, Repubblica democratica del Congo, Uganda e Mali hanno cioè invocato loro stessi la giustizia internazionale. Almeno in questi quattro casi, dunque, ha senso parlare di 'pregiudizio'? Sulla lista dei ricercati dalla corte dell’Aja, che non ha una propria polizia giudiziaria e per questo si basa sulla collaborazione dei Paesi membri, sono finiti personaggi come Joseph Kony, riconosciuto leader del sedicente 'Esercito di resistenza del Signore', gruppo ribelle ugandese accusato di aver ucciso migliaia di persone; i miliziani congolesi Thomas Lubanga e Germain Katanga, responsabili di massacri, torture e stupri, condannati all’Aja a 14 e 12 anni di prigione; Jean-Pierre Bemba, congolese, accusato di responsabilità nelle stragi condotte nella Repubblica centrafricana tra il 2002 e il 2003. A ben vedere all’iniziativa autonoma del procuratore della Cpi si devono solo le inchieste su Costa d’Avorio e Kenya. Nel primo caso, l’ex presidente Laurent Gbagbo è finito in custodia nel 2013 con l’accusa di aver commesso crimini contro l’umanità durante gli scontri post-elettorali del 2010.  Nel secondo, la corte ha formalmente chiuso a marzo di quest’anno il procedimento contro il presidente in carica Uhuru Kenyatta, primo capo di Stato in carica a comparire davanti ai giudici dell’Aja. Nel 2011 Kenyatta era stato accusato di aver avuto un ruolo nelle atroci violenze scoppiate dopo le elezioni del 2007. Il caso, tra i più discussi e criticati di questi 13 anni, è stato lasciato cadere per insufficienza di prove, ma ha contribuito ad alimentare non poco il mito del 'pregiudizio africano'.   Tra i protagonisti della campagna a favore di Kenyatta si è segnalato il presidente ugandese Yoweri Museveni, che non nascosto la sua intenzione di arrivare ad un ritiro di massa da parte dei Paesi africani dallo Statuto di Roma. La mozione è già stata affrontata in due diversi summit dell’Unione Africana, mancando però il quorum anche grazie all’impegno di Paesi come il Ghana, la Costa d’Avorio, la Repubblica democratica del Congo. Politicamente, però, il 'danno' era già stato fatto, e quanto accaduto in Sudafrica a favore di Bashir conferma che l’efficacia della Cpi è a rischio. L’Africa, peraltro, è tra i principali 'azionisti' della Corte: su 123 Paesi che hanno siglato lo Statuto di Roma, ben 34 sono africani. E africani, a ben vedere, sono anche metà dei conflitti in corso nel mondo, forse uno tra i motivi non secondari per cui lo sguardo dell’Aja si è posato così spesso sul continente nero. Un’altra ragione, sostengono alcuni analisti, è che, essendo così esposta alla violenza, la società civile africana ha avuto particolare interesse in questi anni a instaurare uno stato di diritto, anche retto dall’esterno se necessario. 'Esigenza' che però viene avvertita meno dai capi di Stato, soprattutto da coloro che tendono a ritenersi al di sopra di quelle regole che li obbligano a rispondere legalmente delle loro azioni. Se a questo si aggiunge l’estrema lentezza d’intervento dimostrata dalla Cpi (anche per mancanza di maggiori mezzi operativi), ecco che la Corte non gode di buona immagine e la sua stessa esistenza è ormai in discussione.   C'è chi pensa, invece, che il vero obiettivo degli avversari della Cpi non sia la sua distruzione, bensì l’abrogazione di quell’articolo 27 dello Statuto di Roma che consente di incriminare un presidente in carica. Guarda caso un anno fa, al summit dell’Unione Africana in Guinea Equatoriale, è stato deciso che proprio questo principio dovrebbe essere tra i cardini di una futura Corte africana per la giustizia e i diritti umani, organo giudiziario che mezza Africa vorrebbe vedere istituito proprio in contrapposizione alla Cpi.  Una simile corte panafricana, in realtà, esiste già dal 2004 basata ad Arusha, in Tanzania, ma è rimasta sostanzialmente inerte, certo non agevolata dalla leadership politica del continente.  La domanda che infine qualcuno comincia a porsi è: ha ancora un senso, in un mondo attraversato da milizie terroriste, una corte come quella dell’Aja? Ha senso un tribunale che vorrebbe essere globale ma che rappresenta appena un quarto della popolazione mondiale? Un tribunale che in 13 anni di attività e 1,5 miliardi spesi ha spiccato appena 28 mandati d’arresto, è riuscito a detenere appena un terzo dei ricercati e ne ha condannati solo 2? Se è questo il risultato della giustizia internazionale che una discreta fetta di mondo cercava nel 2002, i risultati appaiono già incredibilmente deficitari. E questo a prescindere dal difficile rapporto che la corte dell’Aja ha avuto e continua ad avere con il continente africano.
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