lunedì 11 febbraio 2013
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C’è un fenomeno-Italia che diversi osservatori stranieri e certi euroburocrati faticano a decifrare e del quale forse a noi stessi inizia a sfuggire il senso, presi come siamo da qualche abbagliante e ben reclamizzata vetrina di apparenti e “progressive” virtù estere. E invece, a guardarlo bene, questo Paese ha dentro di sé un segreto che vale un brevetto d’inestimabile valore, pallidamente riprodotto altrove e sempre invidiato anche da chi mostra di non capirne il cuore. Dentro il dato di una nazione che “tiene” – malgrado la crisi elevata alla potenza da zavorre storiche e da autolesionismi recenti – c’è una fitta rete di relazioni che dal nucleo naturale e forte della famiglia si allarga in una ragnatela capillare di persone e comunità saldate le une alle altre da un vincolo di condivisione della vita comunque essa si manifesti, collante profondamente umano e per ciò stesso assai restìo a lasciarsi logorare. È questo il tesoro più caro che abbiamo come collettività, e lo sappiamo bene per un istinto culturale primario che ci fa certi di poter contare su altri – persino sconosciuti – e di poterlo fare sempre, in particolare quando le nostre forze sono evidentemente inadeguate. L’abbiamo appreso in famiglia, lo vediamo riflesso nelle famiglie altrui, ce lo confermano le esperienze in parrocchia, a scuola, nelle associazioni, e anche sul lavoro, specie là dove è generato a vantaggio di tutti. È il senso di una solidarietà vera, diffusa, tenace, che sta resistendo alla forza centrifuga dell’economia e del lavoro in debito d’ossigeno, ma che ora è insidiata dalla pioggia acida di idee, costumi e pretese di matrice individualista.Esiste però una prova nella quale questo segreto italiano, guardato con stupore e invidia (e persino fastidio, visto quanto taluni si adoperano per smontarlo, e non solo all’estero...), mostra in modo esemplare il meglio di sé: ed è accanto al letto del malato, del più debole, che sappiamo bisognoso di qualcosa che solo noi possiamo dargli, e che per ciò stesso diventa un sereno, convinto e inderogabile dovere. Un promemoria da ripassare alla vigilia della Giornata mondiale del malato, che la Chiesa celebra proprio domani. La mano tesa all’altro – logo umanistico e cristiano che esprime la vera anima del nostro Paese – è il gesto che ogni giorno nutre le relazioni familiari nel nome della priorità indiscutibilmente assegnata al più piccolo e vulnerabile, dal bambino che sta imparando l’alfabeto della vita all’anziano forse neppure più del tutto cosciente di sé, dal disabile al malato terminale che negli occhi di chi gli si fa prossimo vede specchiata la propria intatta dignità.È nel nome di questo principio primo, al cuore stesso dell’etica della vita, che sappiamo ancora guardare il malato come colui che merita il nostro sguardo e il nostro rispetto fraterno. C’è chi fa di tutto per farcelo dimenticare, ma nel sapersi far carico di altre vite e di ricevere in cambio da queste qualcosa di egualmente prezioso e di inimmaginabile in termini mercantili c’è il codice che segna la differenza tra la nostra civiltà e il suo sgretolamento in coriandoli di “diritti” che insidiano proprio questa straordinaria e felice “eccezione” italiana.Nell’albero delle relazioni che sale dalla famiglia e si stende fino agli ultimissimi, senza mai lasciar solo nessuno, c’è scritta la «grammatica dell’umano» di cui parlava ancora ieri il cardinale Bagnasco. Senza di essa cade l’albero, e finiamo analfabeti proprio di ciò che invece conosciamo meglio.Nella mano che stringe l’altra, tesa nel gesto di chi domanda aiuto, c’è l’eco eterna di quell’espressione – «Va’ e anche tu fa lo stesso» – che sigilla la parabola del Buon Samaritano, come consegna all’uomo di oggi, a noi, perché siamo all’altezza della nostra immagine divina. Dentro la traversata del deserto – economico e culturale – che stiamo sperimentando ci viene rivolta una volta ancora questa frase evangelica perentoria e densa che il Papa ha scelto quest’anno per la Giornata del malato. È dalla mano che apriremo ancora a colui che giace «mezzo morto», e si vede ignorato da chi «passò oltre», che sapremo di essere ancora noi stessi.
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