Il rito collettivo del concerto, gioia che vince sull’odio
martedì 6 giugno 2017

Quella coscienza che si cela dietro la leggerezza della musica Si può con più di una buona ragione pensare che fossero lacrime emotivamente 'facili' quelle che domenica sera rigavano migliaia di giovanissimi volti allo stadio di Manchester mentre Ariana Grande eseguiva una toccante versione di Somewhere over the rainbow.

Quattro ore di musica col mondo intero che seguiva – forse con gli stessi anni, certo con le stesse lacrime – il tributo del meglio del brit pop (e non solo) alle vittime della strage di pochi giorni prima nella medesima città, al termine di un concerto della giovane star americana, ma anche, e questo di certo non era preventivabile, un omaggio a quanti sono caduti sabato notte a Londra nell’ennesimo attacco in terra inglese per mano del terrorismo all’arma bianca che semina il panico travolgendo i passanti con auto lanciate a folle corsa per poi gettarsi a colpire e sgozzare chiunque capiti a tiro. È la risposta della musica leggera alla grevità di un odio smisurato che ci getta addosso il terrore, a paralizzarci gesti e parole.

Ma cosa può dire a questa invisibile armata della violenza un concerto con i brani che milioni di giovanissimi cantano a memoria, gli occhi sgranati e gli smartphone a condividere le emozioni di una parata di stelle? Apparentemente nulla, come se non fosse stato davvero inteso il messaggio recapitato dai postini della guerra a pezzi (a frammenti sempre più piccoli, in uno stillicidio di episodi, ognuno dei quali ricaccia il precedente nell’archivio dell’oblìo mediatico).

Voi ci odiate proprio per questa musica, questi concerti, questo stile di vita che vi risulta insopportabile, simbolo di una civiltà che volete ridurre al silenzio della paura? E noi cantiamo, come se niente fosse. Chi ha organizzato la serata di Manchester, con tanto di raccolta fondi a scopo solidale, ha fatto le cose per bene: è quello che ci si attende dai migliori professionisti della musica commerciale, che sanno come vendere un prodotto al quale si chiede solo di esser facilmente consumabile da un pubblico giovane e aperto a messaggi diretti, pronto a rispondere senza mediazioni, lacrime incluse.

Ma è proprio dove più facilmente può emergere l’aspetto strumentale dell’operazione «One Love Manchester», Un solo amore Manchester – il concertone allo stadio, con tenero logo su fondo rosa –, proprio lì traspare la forza disarmata e prorompente di una risposta profonda, inesorabile, senza appello. I ragazzi arrampicati sulle spalle degli amici che cantano trasognati le canzoni delle star sembrano indifferenti a tutto, come se il sangue che li circonda non li riguardasse finché non se lo trovano addosso, ma mostrano a chi con quel sangue vuole soffocare alla radice ogni gioia di vivere che non hanno, non abbiamo paura, non quella paura che ti chiude in casa e fa sospettare del vicino.

E non sarà neppure col terrore incombente sulla nostra quotidianità che riusciranno a farci rinnegare quel che la storia ci ha insegnato, con tutto ciò che la costituisce, dalle radici ai frutti, dal cristianesimo che ci ha insegnato proprio quell’amore esibito a Manchester come il vessillo di un esercito senz’altra arma che una canzone fino all’accoglienza dello straniero in casa mia, come un fratello, non chiedendogli altro che rispettare la nuova patria che gli apre la porta. È l’amore per chiunque, nemici inclusi, e questa di tutte è forse l’affermazione più insostenibile per chi vorrebbe indurci una coltellata dopo l’altra ad alzare nuovi muri, srotolare fili spinati, aprire carceri speciali, imporre barriere, regole asfissianti, controlli, divieti, separare definitivamente il genere umano nel nome della paura.

E allora cantate, ragazzi, perché con la libertà e il coraggio di andare a celebrare lo stesso rito collettivo del concerto costato la vita solo pochi giorni fa a giovani come voi dimostrate a tutti – anche a noi genitori più timorosi che mai – che non c’è odio o paura capaci di fermare la vostra domanda di vita, di futuro, di gioia. Quel che cantate infatti non è solo l’ultimo successo di Ariana Grande o degli artisti che hanno dato vita insieme a lei a una memorabile serata di musica popolare del nostro tempo, facile, ma proprio per questo capace di creare legami e non distanze. Allo stadio e dovunque, cantiamo insieme a voi la speranza, a tal punto piantata dentro la nostra coscienza che nessun odio potrà estrarla, perché fa parte di ciò che siamo.

È bello, e pieno di senso allora, vedere e sentire nostre le lacrime dei quindicenni che a quella speranza forse non sanno dare un nome, ma la sentono pulsare inestinguibile ascoltando una vecchia canzone che li invita, proprio quando la paura morde, a cercare qualcosa che c’è di sicuro. Non è difficile trovarla: è là, da qualche parte, oltre l’arcobaleno. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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