Esposti curdi e francesi, vincono Turchia e Russia
venerdì 21 dicembre 2018

Ormai lo si è capito da tempo, con la Presidenza Trump tutti – avversari e alleati – si devono aspettare decisioni improvvise e il ribaltamento delle politiche tradizionali. Ma l’annuncio di voler procedere a un ritiro immediato delle forze speciali che da anni sostengono le milizie curde in Siria e che hanno combattuto il califfato jihadista di Raqqa sembra aver sorpreso – e profondamente irritato – lo stesso Pentagono, favorevole alla loro presenza nel Paese arabo. Vedremo se la decisione verrà mantenuta o se verrà derubricata a un semplice sbalzo d’umore presidenziale, destinato a essere presto dimenticato.

La motivazione ufficiale è che quelle forze servivano a sconfiggere Daesh: dato che l’organizzazione terroristica è stata distrutta non c’è motivo di restare. Logica apparentemente inoppugnabile, se non si basasse su premesse e conclusioni false: Daesh è stato sì momentaneamente sconfitto, ma migliaia di combattenti cercano di riorganizzarsi per tornare a operare, sia pure in modo meno 'arrogante' di quanto fatto nel 2014, con la creazione di un vero e proprio stato jihadista. Il fatto stesso che molti dei capi jihadisti non siano stati catturati certifica che sono ancora attive reti di protezione e vi siano capacità di muoversi sul territorio. Ma nella decisione di Trump sono sbagliate anche le premesse: perché l’esercito statunitense sosteneva altresì le forze curde, armate e protette da Washington già dal lontano 1991.

Trump ha deciso di abbandonarle proprio all’indomani dell’annuncio del presidente turco Erdogan di voler attaccare i curdi nel nord della Siria. Il messaggio che viene colto da amici e nemici degli Usa nel Medio Oriente è che, ancora una volta, non bisogna fidarsi delle promesse di amicizia americane, dato che il loro sostegno è mutevole e temporaneo. A meno di essere Israele o l’Arabia Saudita. Al Pentagono e al Dipartimento di Stato sanno bene quali effetti disastrosi possa avere l’idea che lo scudo americano sia inaffidabile sui propri alleati o sulle piccole pedine buttate allo sbaraglio nel Grande Gioco mediorientale.

Proprio ora che l’Amministrazione sta muovendo tutti i suoi pezzi disponibili (ufficiali e segreti) contro l’odiato regime di Teheran. Chi si avvantaggia di questa mossa è certo la Turchia di Erdogan, che ora ha mani libere contro i curdi, ma paradossalmente anche Russia e Iran, ossia i veri vincitori della guerra in Siria. La partenza delle forze speciali USA rende certo più facile per loro muoversi nel nord est del Paese e accresce il loro peso geopolitico.

Non a caso, a Washington, si ritiene che questo 'favore' a Putin getti ulteriori ombre sui veri e controversi rapporti del presidente con il leader russo, proprio quando le indagini del procuratore speciale Robert Mueller si fanno più insidiose per lui. Anche se certo, la decisione ha il consenso della sua base elettorale più profonda, tendenzialmente isolazionista. Spiazzata è anche la Francia, che ha almeno duecento soldati nella stessa regione, i quali ora si trovano molto più esposti. Ma la scelta – e questo è sorprendente – sembra anche andare contro la linea politica che ossessiona i falchi attorno al presidente, ossia la demonizzazione e l’isolamento dell’Iran. Quelle forze speciali americane erano infatti vissute come una minaccia dai pasdaran iraniani, che ne temevano le capacità operative e di sostegno ai tanti nemici di Teheran.

Non a caso la loro annunciata partenza viene celebrata come una grande vittoria dai giornali iraniani conservatori. A meno che abbiano ragione i dietrologi che leggono questo ritiro come il voler avere mani completamente libere contro Teheran, per politiche ancora più avventuriste e pericolose. Quel che è certo è che l’erratico, imprevedibile procedere della politica estera di questa Amministrazione statunitense non aiuta a elaborare strategie di lungo periodo che cerchino di stabilizzare la regione in modo duraturo. Politiche forse troppo complesse e noiose per un presidente che sembra ragionare solo a colpi di twitter.

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