domenica 10 aprile 2011
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Chi si era illuso che l’impetuoso vento delle proteste nel mondo arabo por­tasse alla caduta dei dittatori e degli auto­crati, abbarbicati al potere da decenni, e fa­cesse fiorire la democrazia, farà bene a tor­nare a un più prosaico realismo: i morti con­tinuano ad aumentare in Siria, come in Ye­men, come in Bahrein, per non parlare del­la guerra civile in Libia, non risolta dal con­fuso intervento internazionale. E, come pre­vedibile, sono tornate le proteste e le vio­lenze anche in Egitto, proprio nella piazza simbolo della rivolta, piazza Tahrir. Le élite al potere possono anche accettare di sacri­ficare l’uomo simbolo del regime (che si chiami Mubarak o Ben Ali) ma sono assai più restie a cedere il potere reale, col rischio – an­zi, la certezza – di rimanere in balìa dei loro vecchi avversari politici. «È la ferrea legge della banalità», per riprendere la famosa te­si del geopolitologo statunitense Colin Gray. Cacciato il Faraone, in Egitto rimangono co­sì al loro posto tutti gli elementi di dissidio e conflitto: i militari che gestiscono la tran­sizione, la nomenclatura burocratico-am­ministrativa, le opposizioni liberali, i radicali islamici, le masse di giovani con un futuro dalle prospettive grigie e incerte. Tro­vare l’equazione politica che soddisfi tutti è praticamente impossibile. I movimenti di protesta e le masse di dimostranti che hanno provocato la cacciata di Mubarak avevano, e han­no, aspirazioni e ideali diversi. Chi ha sfidato la repressione si aspettava un cambiamento politico sostanziale e non solo di facciata. Molti egiziani a­vrebbero quindi voluto che il gover­no di transizione si muovesse con maggiore determinazione nei con­fronti degli elementi di spicco del pas­sato regime, colpendo con durezza la sfacciata corruzione che imperava.Ma i militari sembrano sempre più spaventati dal rischio di derive che fi­nirebbero con il non controllare; i lo­ro interlocutori più affidabili sono gli esponenti del ceto politico e ammi­nistrativo del passato regime. In fon­do, l’obiettivo primario di queste per­sone è la stabilità e la sicurezza del Paese, che con disinvoltura equipa­rano alla propria. Nessun salto nel vuoto, dunque, o cambiamenti im­provvisi in politica estera. E nessun processo pubblico al passato dell’E­gitto, che aprirebbe il vaso di Pando­ra non solo della corruzione e della malversazione, ma anche e soprat­tutto degli anni di violenza contro gli oppositori e contro i gruppi radicali islamici.Dall’altra parte, ci sono i partiti di op­posizione che, dopo il referendum per le modifiche costituzionali, si pre­parano alle elezioni politiche. Si è spesso fatta notare la limitata pre­senza di slogan islamici nei giorni del­la rivolta, come se i Fratelli Musul­mani e gli altri gruppi islamico-radi­cali fossero stati indeboliti dalle richieste di natura secolare degli egiziani, incentrate sul­la libertà, la rappresentanza, il migliora­mento delle condizioni economiche. Un’i­dea rassicurante, ma purtroppo non solida: il referendum ha mostrato ancora una vol­ta le capacità di mobilitazione dei movi­menti islamici radicali, i quali – in questo momento – non hanno semplicemente in­teresse a forzare la mano. Anzi, un basso profilo e un’agenda politica moderata sono fondamentali per catturare il sostegno del­la classe media (oltre che degli egiziani più tradizionalisti) e per non spaventare i mili­tari o la comunità internazionale. Scom­mettono sulla loro superiore organizzazio­ne e sul potere persuasivo della moschea nel momento decisivo, in particolare nelle aree rurali o dei quartieri più poveri del Cai­ro. Nelle zone, insomma, dove i movimenti liberali avranno maggiori difficoltà a farsi conoscere, e dove le loro ricette moderate o i loro ragionamenti all’occidentale suone­ranno probabilmente meno persuasivi de­gli slogan incentrati sulla "giustizia sociale" garantita dall’islam. È con questa realtà e con queste prospettive che le altre forze vi­ve del grande Paese del Nilo devono fare i conti. La storia on si ferma, e il suo finale non già scritto.
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