Il rilancio da Oriente
martedì 5 settembre 2023

La “pax mongolica” evocata dal Papa durante il suo viaggio conclusosi ieri non fu imposta secondo il rispetto dei diritti che oggi riteniamo inviolabili, ma si segnalò come un periodo senza conflitti e anche di sviluppo economico. Non per nulla Francesco, nel suo discorso di sabato dal Palazzo di Stato a Ulan Bator, ha precisato che quell’era di convivenza senza combattimenti dovrebbe ripetersi oggi «nel rispetto delle leggi internazionali». La sua visita, infatti, ha costituito dal punto di vista della diplomazia internazionale un “rilanciare da Oriente un nuovo appello per la pace all’Occidente”, come ha scritto Stefania Falasca su queste colonne. Un grande Paese con una sparuta minoranza cristiana viene oggi indicato quale modello per la sua politica estera impegnata per i diritti umani e contro la proliferazione nucleare, ma soprattutto rappresenta un esempio per i suoi potenti e ingombranti vicini, la Cina e la Russia, alle quali soprattutto era rivolto il messaggio implicito. Verso Pechino, prossima possibile e attesa tappa dell’inviato della Santa Sede, cardinale Matteo Zuppi, la comunicazione è stata alla fine anche esplicita. «Invio un caloroso saluto al nobile popolo cinese. A tutto il popolo auguro il meglio! E andare avanti, progredire sempre. E ai cattolici cinesi chiedo di essere buoni cristiani e buoni cittadini», ha detto il Papa, nello spirito di una collaborazione che parte dalla religione per estendersi alla società e alla politica.

Nelle stesse ore in cui Francesco continuava a tessere la sua tela per una concreta trattativa sul conflitto in Ucraina – anche precisando con i giornalisti il senso delle sue parole rivolte ai giovani russi riuniti a San Pietroburgo: richiamo alla cultura che unisce non certo all’imperialismo che divide –, a Sochi si svolgeva un faccia a faccia tra il presidente Vladimir Putin e il leader turco Recep Tayyip Erdogan. A quest’ultimo va riconosciuto lo sforzo per riavviare l’accordo sul grano (sotto l’egida Onu) che dal luglio 2022 aveva permesso l’esportazione di cereali ucraini malgrado le ostilità in corso. Il ritiro di Mosca è stato motivato dalla presunta inadempienza occidentale, ovvero la mancata rimozione dei limiti alla vendita di fertilizzanti e prodotti agricoli russi sul mercato globale. Ora il Cremlino sembra porre condizioni più pesanti, ma lascia spiragli per un ripristino dell’intesa: si contribuirebbe così ad alleviare la pressione sui prezzi delle derrate alimentari che mettono in difficoltà numerosi Paesi meno sviluppati. Purtroppo, come si è visto in tutto il periodo di vigenza del protocollo, i corridoi sicuri dai porti ucraini non hanno rallentato l’intensità degli scontri né hanno consentito di aprire altri dossier. Tuttavia, la situazione in questi mesi sta cambiando. La controffensiva di Kiev non procede al ritmo sperato dai vertici militari e dal fronte occidentale che sostiene onerosamente lo sforzo bellico del Paese aggredito. La riconquista di territori si annuncia lunga e difficile, sebbene non si possa escludere qualche sfondamento in profondità a breve termine. Di fronte a questo stallo, con l’avvicinarsi della campagna elettorale americana e una mancanza di piani alternativi della Nato rispetto a uno scenario di guerra lunga e costosa, sempre meno calorosamente sostenuta dalle opinioni pubbliche, cresce la spinta a una soluzione negoziale del conflitto. Nessuna illusione che prossimamente Zelensky e Putin siedano allo stesso tavolo, come è accaduto in queste ore con Erdogan. Il percorso sarà molto più complesso e accidentato, dato che entrambi i leader hanno paradossalmente pochi margini di manovra. Come ha indicato l’ammutinamento della Wagner, lo Zar del Cremlino non può fare marcia indietro dopo avere messo in gioco il suo destino nell’“operazione militare speciale” lanciata il 24 febbraio dell’anno scorso, anche se all’apparenza ha una presa d’acciaio sulla sua nazione.

Per il presidente ucraino non è soltanto questione di credibilità: si gioca sulla promessa di non fare alcuna concessione territoriale la permanenza in carica all’indomani del prossimo voto. Ecco allora che servirà una strategia raffinata per aggirare tutti gli scogli sulla via del negoziato. E, soprattutto, un interlocutore per le due parti che abbia la capacità di porsi come autorevole e affidabile. Tutto quello che Papa Francesco sta cercando di costruire personalmente e con l’azione della Santa Sede. Una missione estremamente complessa cui sarebbe auspicabile un sostegno più allargato e sincero per raggiungere l’obiettivo fondamentale della pace.

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