Il pezzo che manca
sabato 20 giugno 2020

Paul ha circa 30 anni e viene dal Camerun. Fino a pochi anni fa viveva a Yaoundé con la giovane moglie, era iscritto al terzo anno di economia ed era uno studente eccellente. Per mantenersi agli studi svolgeva consulenze informatiche per piccole aziende. La matematica e i numeri sono sempre stati la sua passione. Ma viene arrestato e imprigionato più volte per aver partecipato a manifestazioni studentesche contro il rincaro delle tasse universitarie. In prigione viene percosso e minacciato di morte. Preso e rilasciato per la terza volta, temendo di essere nuovamente arrestato e forse ucciso, decide di fuggire dal Paese con la moglie. Cominciano un viaggio pieno di pericoli attraverso il deserto fino alla Libia, dove a Tripoli vengono imprigionati in un centro di detenzione "informale" con 200 altre persone, in condizioni disumane. Sarà solo dopo sei mesi di orrore e violenza che riesce a pagare il riscatto e a imbarcarsi su un gommone con più di 150 altre esseri umani. Paul e sua moglie riescono ad arrivare in Italia nel 2018.

Abbiamo incontrato Paul al Centro Astalli, per le cure mediche e per far rivalutare il suo caso a cui era stato assegnato solo un permesso di protezione umanitaria, che a causa dei decreti sicurezza ha perso di colpo valore. Il suo sguardo era spesso assente e ci ha raccontato di sentirsi cambiato, di non riconoscersi più. Il periodo passato in Libia è stato troppo lungo e troppo violento da essere semplicemente insopportabile, ha causato una frattura nella capacità della sua coscienza di integrare normalmente le esperienze vissute. E i ricordi avevano preso a tornare all’improvviso, confondendosi col presente, mentre diverse parti di sé gli parlavano assumendo la voce degli abitanti del campo di prigionia. Ancora una volta è stata la straordinaria intelligenza di Paul ad aiutarlo, in poco tempo è riuscito a capire che non ci sono fantasmi a tormentarlo, ma che è la sua mente a reagire a un passato così terribile da continuare a vivere dentro di lui. Oggi Paul ha ritrovato se stesso, le sue capacità ed è stato in grado di ritornare davanti a una Commissione dove questa volta ha potuto raccontare quello che aveva vissuto nel proprio Paese, i motivi della sua fuga e finalmente ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato.Per dare senso alla Giornata del Rifugiato 2020 dobbiamo cominciare ad ascoltare quello che i rifugiati hanno da dire, le loro storie, le loro ragioni. Forse in questo tempo di pandemia la loro voce sarà ancora una volta coperta da quello che noi riteniamo più urgente o importante, dalle nostre ragioni, dalle nostre giustificazioni, dalle nostre interpretazioni. Mettersi nei loro panni è il pezzo del racconto che manca sempre.

E' come se noi ci stessimo abituando a vedere una fotografia sempre più sfocata di una barca in mezzo al mare, in cui non si distinguono volti, storie personali e tragedie umane. Stiamo mettendo in atto una sorta di strategia dell’anonimato. Meno sappiamo delle persone che cercano di arrivare, più facile è lasciarle in un centro di detenzione o riportarle in Libia, lasciarle in un campo in Grecia o vederle morire in mare senza sentirsi complici o responsabili.

Eppure i rifugiati non sono altro da quel 'noi' che può farsi escludente. Camminano per le stesse vie, vogliono stringere relazioni, trovare il loro posto nel mondo. Allora mettiamoci in ascolto, diamo loro spazio in una narrazione pubblica che riparta dalla dignità di ogni donna e ogni uomo. Bisogna sapere che dare voce ai rifugiati e prendersi del tempo per ascoltarli vuol dire prima di tutto sgombrare la mente da idee preconcette e fare lo sforzo di capire, per conoscere e per stupirsi ancora una volta del fatto che ogni storia è unica e, in quanto tale, merita di essere raccontata. Sono molti i dolori, i fallimenti, i percorsi lunghi di cui non si vede il traguardo, sono tante le storie ferme che non ripartono. E lo saranno sempre di più in un Paese come l’Italia che non investe in accoglienza e inclusione, che alza barriere e ancora oggi, purtroppo, respinge profughi e migranti in Paesi non sicuri senza ascoltare le loro voci, le loro ragioni, le loro sofferenze.

Le storie belle nascono e si diffondono dove trovano spazio e condizioni per farlo. Tutti coloro che operano in prima linea nell’accoglienza sono consapevoli dei dolori da lenire e delle ingiustizie da sanare, ma anche testimoni privilegiati della bellezza che ci portano i rifugiati. Nonostante le mille difficoltà e gli ostacoli che si moltiplicano nel cammino in Italia, loro rimangono portatori di speranza e buoni compagni di viaggio lungo la strada della vita.

Presidente Centro Astalli

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