venerdì 5 gennaio 2018
Più attivismo e cooperazione tra militari
Il nuovo ruolo degli eserciti dopo le «primavere» arabe
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Quando si discute di Medio Oriente, milizie e gruppi jihadisti sono al centro del dibattito: ma qual è lo 'stato di salute' degli eserciti arabi? Sette anni fa, nel dicembre 2010, iniziavano le cosiddette primavere arabe, le rivolte di piazza che tanto avrebbero cambiato la fisionomia del Medio Oriente contemporaneo: il ruolo degli eserciti si rivelò fondamentale. Infatti, essi furono arbitri della transizione politica ( Tunisia), protagonisti della repressione (Bahrein, ma anche Siria) e persino attori della contro-rivoluzione (Egitto). In alcuni casi, gli eserciti si spaccarono in due, tra filo-governativi e pro-insorti (Libia e Yemen). Più in generale, il destino delle rivolte popolari fu segnato dalla reazione, o meno, dei militari, capaci di proteggere, oppure di abbandonare, sistemi di potere sempre più disfunzionali, corrotti e socialmente ingiusti.

Ma cosa è successo dopo? L’evoluzione degli eserciti arabi dopo i fatti del 2010-2011 è un filone di ricerca finora trascurato, sia nei centri studi che nelle università. Eppure, lo scenario è da allora molto cambiato: le guerre civili in Siria e Yemen, il sedicente Stato Islamico, le minacce transnazionali, la rivalità regionale tra Arabia Saudita e Iran. Un dossier recentemente pubblicato dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) di Milano, 'Arab Armies, Six Years On', getta luce, grazie al contributo di studiosi italiani e internazionali, sui percorsi di trasformazione degli eserciti arabi, specie in relazione alle nuove sfide di sicurezza. Guardando ai paesi analizzati nel dossier (Algeria, Tunisia, Egitto, Libano, Iraq, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti), le sorprese non mancano. E disegnano un Medio Oriente un po’ diverso da quello che siamo soliti immaginare.

Prima di tutto, gli eserciti arabi sono diventati molto più attivi dopo il 2011, poiché direttamente coinvolti in conflitti (sauditi ed emiratini in Yemen), campagne anti-jihadiste aeree e di terra (i membri arabi della coalizione anti-Daesh e i soldati iracheni), protezione dei confini (tunisini, algerini, libanesi). Per gli uomini in divisa, la capacità di adattarsi a nuovi contesti, minacce e compiti, è basilare, sia dal punto di vista strategico che operativo: è per questo che la maggior parte degli eserciti arabi sta scegliendo la via del cambiamento, seppur graduale. Tuttavia, alcuni non lo hanno fatto, e sono due 'pesi massimi': Siria ed Egitto «continuano lungo il percorso iniziato nel 1990», sottolinea Florence Gaub, ricercatrice del European Union Institute for Security Studies (Euiss). Con scarse possibilità di successo, visto che il Medio Oriente è profondamente mutato. In Egitto, il vile attacco terroristico nella moschea sufi di Bir al-Abd del 24 novembre scorso, costato la vita a 235 persone, ha rimarcato il fallimento della strategia egiziana contro i gruppi jihadisti della penisola del Sinai. Sebbene l’approccio non possa essere solo securitario, anni di 'terra bruciata' non hanno neppure affievolito questa minaccia asimmetrica, che si intreccia al malcontento delle tribù beduine locali: la prima operazione dell’esercito egiziano in Sinai è datata 2011.

Adattarsi al contesto significa anche ripensare il proprio ruolo: sta accadendo, con modalità differenti, sia all’esercito tunisino che a quelli di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tra il 2011 e il 2015, i militari della Tunisia hanno visto crescere del 50% le spese per la difesa in rapporto al prodotto interno lordo: una novità in un paese in cui è la polizia, già pilastro del regime dell’ex presidente Ben Ali, a monopolizzare il settore della sicurezza. E i compiti stanno aumentando, con risvolti ancora da decifrare: l’esercito tunisino protegge oggi le infrastrutture energetiche, ma è stato soprattutto incaricato di reprimere alcune proteste sociali (è accaduto nel maggio di quest’anno a Kef e Tataouine). La grande trasformazione riguarda però gli eserciti delle monarchie del Golfo: l’intervento militare in Yemen, lo sviluppo dell’industria nazionale della difesa, l’introduzione della leva militare obbligatoria (in Emirati, Qatar e Kuwait), le molte perdite umane (anche se il numero dei mercenari stranieri rimane alto). Per gli eserciti del Golfo, si tratta di un vero cambio di paradigma, culturale ancor prima che militare: essi non sono più semplici protettori dei regimi, ma diventano strumenti di politica regionale, nonché veicoli dell’identità nazionale.

Nel mondo arabo, la cooperazione militare è in crescita. Una tendenza che si traduce in frequenti esercitazioni congiunte, sia bilaterali che su vasta scala, come nel caso di 'Northern Thunder' che nel 2016 ha coinvolto venti paesi arabi e/o islamici al fianco dell’Arabia Saudita. Sono in aumento anche gli accordi di cooperazione, come quello fra Algeria e Tunisia su protezione dei confini, intelligence e addestramento. Algeri sta rafforzando la cooperazione militare con i vicini (Libia, Mali e Niger) proprio per «compensare i limiti della sua politica non-interventista», sottolinea nel dossier Dalia Ghanem-Yazbeck, ricercatrice di Carnegie Beirut. La condivisione delle competenze tecniche favorisce la professionalizzazione, finora ostacolata dalla continua interferenza della politica, nonché dalla forza, spesso divisiva, delle appartenenze etniche, tribali, comunitarie.

In termini di professionalizzazione e di capacità militari, l’esercito libanese ha registrato progressi considerevoli (anche grazie alla missione Unifil II dell’Onu, a lungo sotto comando italiano), pur tra mille difficoltà. Le forze armate del Libano sono «il prodotto degli equilibri di potere settari» interni al paese, evidenzia Jean-Loup Samaan, docente di studi strategici al National Defense College degli Emirati Arabi Uniti. Ma la coesistenza con Hezbollah, il partitomilizia sciita sostenuto anche dall’Iran, dimezza le potenzialità dell’esercito libanese che «nonostante i significativi conseguimenti a livello operativo», specie nel contenimento dei jihadisti lungo il confine fra Siria e Libano, «rimarrà strategicamente debole», conclude Samaan.

Per molti eserciti arabi, il rapporto con le milizie rimane una sfida pressante. È il caso di quello iracheno, stretto fra due visioni opposte di come andrebbe riformato: quella inclusiva, anche della comunità arabo sunnita, auspicata dagli Stati Uniti e quella pro-milizie, a 'trazione sciita' dell’Iran. Per l’Iraq e i suoi militari, le elezioni politiche del 2018 saranno un passaggio-chiave; nel frattempo, i militari dovranno dimostrarsi capaci di controllare i territori ripresi ai jihadisti. Di certo, gli eserciti sono tornati a essere attori e strumenti centrali per gli equilibri interni del Medio Oriente. E giocano ora da protagonisti, anche laddove non lo erano.

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