mercoledì 9 marzo 2016
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Molto è stato scritto, e ancor più detto, intorno alla pratica della surrogazione di maternità, popolarmente venuta alla ribalta come 'utero in affitto', un termine da giurisprudenza commerciale che – se non bastasse l’evidenza del fatto in sé e delle sue implicazioni per la donna, il nascituro e la società civile – la rende ancor più estranea a chi è chiamato, per vocazione professionale, a prendersi cura della maternità: il medico ostetrico. Nell’aspro ma poco istruito dibattito pubblico in corso su questa materia, le ricadute di questa 'locazione d’organo' sullo specialista clinico della gravidanza sono state sinora eluse. Neanche Asclepio, il dio greco della medicina, e sua figlia Panacea, che pure aveva il dono di saper curare in tutte le circostanze, avrebbero potuto vaticinare la moltiplicazione delle figure materne attorno all’unico concepito resa possibile dalle tecniche di procreazione assistita e permessa in alcuni Paesi dalle leggi che le riguardano o tollerata da giudici che, invece, sarebbero tenuti a presidiare il divieto vigente in altri Paesi, a cominciare dalla nostra Italia.  Nel suo trattato di ginecologia dalla lunga fortuna, delineando il compito di custodire la vita della gravida e del feto, il medico della Roma antica Sorano di Efeso anticipava una doppia responsabilità di cui prenderà progressivamente coscienza l’ostetricia: quella verso la madre e quella verso il figlio. E se il secondo può essere più di uno (il fenomeno della gemellarità era ben conosciuto), la prima restava singolare, così che una tra le prime allieve medico della Scuola salernitana, Trotula de Ruggiero, poteva scrivere della gestante: un’unica madre pur nelle diverse sofferenze ( passiones) prima, durante e dopo il parto. La duplice responsabilità morale e professionale verso la donna e verso il nascituro si paleserà in tutta la sua dirompente drammaticità dapprima negli anni 70 del Novecento, con la progressiva legalizzazione dell’aborto in Occidente e il coinvolgimento istituzionale dei medici nelle decisioni e nella pratica dell’interruzione della gravidanza, e, nei decenni successivi, con l’approfondirsi delle capacità cliniche di diagnosi delle anomalie del concepito, di individuazione dei fattori materni di rischio per la salute del feto, e di intervento terapeutico medico e chirurgico in utero.  Se risulta evidente che il solo 'corpo' di cui si prende cura l’ostetrico durante la 'gravidanza surrogata' è quello della madre gestazionale e non quello del(la) 'committente del figlio', a motivo di scritture contrattuali e/o di norme legali invocate per regolare i nove mesi di locazione uterina e l’esito atteso di essa (in particolare, la salute dei neonato) il medico si può trovare coinvolto in decisioni e azioni che sollevano ardui problemi etici, deontologici e giuridici. Dapprima essi riguardano la riservatezza delle informazioni ('segreto professionale') sulla salute della gestante e del feto, che gli impedisce di soddisfare richieste di dati clinici inerenti a essa (per esempio, referti di diagnosi prenatale) da parte di terzi, quali il (la) committente. Inoltre, non può essere violato la riservatezza dell’anamnesi patologica prossima e remota della madre gestazionale, incluse le informazioni su abitudini nocive che, se protratte durante la gravidanza, possono compromettere la salute del figlio (tabagismo, alcolismo, uso di sostanze stupefacenti e altro). Infine, ogni interferenza da parte di altri soggetti circa decisioni che riguardano atti diagnostici e terapeutici sulla gestante e/o il feto oppure la prosecuzione o l’eventuale interruzione volontaria della gravidanza - il cui ambito proprio è quello del rapporto tra la donna e il medico - deve essere esclusa. Di fronte a 'carte' di dubbia valenza etica e di diversa natura e implicazione giuridica, stipulate per tentare di regolare i rapporti tra il (la) committente e la gravida, il medico ostetrico rischia di trovarsi nella scomoda e pericolosa condizione di Porzia nel Mercante di Venezia di Shakespeare, chiamata a fare da arbitro di un contratto iniquo e crudele stipulato con un usuraio, che prevedeva un risarcimento attraverso una libbra di carne dello stesso debitore. La professione medica, caratterizzata da un elevato profilo etico e sociale, dovrebbe vedere i propri membri schierarsi decisamente contro una pratica, quella della surrogazione di maternità, che è estranea non solo alla civiltà della generazione umana e al diritto universale dei rapporti tra genitori e figli, ma anche alla dignità della persona del medico e ai principi fondativi della deontologia clinica.
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