martedì 7 febbraio 2017
Tempi duri per i trattati internazionali. Più rischi in Cina. Si chiamano Tpp, Ttip, Nafta, Ceta e rappresentano l’infrastruttura dell’economia globalizzata
Il «libero scambio» è in crisi ma pochi sono preoccupati
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«È a Washington che sono stati firmati per decenni accordi commerciali come il Nafta o come quello con la Cina, con molte protezioni per le aziende e i loro profitti ma nessuna per il nostro ambiente e i nostri lavoratori, che hanno visto le fabbriche chiudere i battenti e milioni di posti di lavoro sparire». Sembra Donald Trump e invece è Barack Obama, che nel febbraio del 2008 usava queste argomentazioni protezioniste per convincere la gente di Janesville, Wisconsin, a votare per lui e non per Hillary Clinton alle primarie dei democratici. Non era una battuta isolata: il senatore dell’Illinois nel 2008 ha conquistato la Casa Bianca presentandosi con posizioni molto dure sui trattati di libero scambio ratificati dagli Stati Uniti, sia il Nafta (quello firmato nel 1994 con Canada e Messico) che il Cafta (analoga intesa siglata nel 2005 con gli Stati centramericani). Gli Stati Uniti non scoprono oggi gli sgradevoli effetti collaterali della globalizzazione economica e i problemi sociali che possono nascere quando l’alleggerimento delle barriere commerciali permette alle aziende di un Paese di spostare altrove produzione e posti di lavoro. Quello che Trump sta portando di nuovo è il concreto abbandono della politica degli accordi internazionali di libero scambio degli ultimi trent’anni, in un momento in cui l’Europa non ha la forza politica di siglarne di nuovi e la Cina ha un disperato bisogno di trovare nuovi clienti per le sue industrie.

Questa crisi della diplomazia commerciale è iniziata con il naufragio dei piani di Obama. Durante i suoi due mandati l’ex presidente ha decisamente ammorbidito la sua ostilità per gli accordi commerciali internazionali. I trattati Nafta e il Cafta sono rimasti intatti e nei suoi ultimi anni alla Casa Bianca Obama ha tentato di completare un grandioso programma per mettere gli Stati Uniti al centro di un’area di libero scambio mondiale, capace di superare l’Atlantico a occidente e il Pacifico a oriente per unire Europa e Asia, scavalcando la Russia e soprattutto la Cina. Ma non ci è riuscito. La parte europea di questo progetto, l’ormai famigerato trattato di libero scambio Ttip, è fallito sul nascere, affossato dalla sorprendente incapacità (o non disponibilità) negoziale sia di Washington che di Bruxelles. Nessuno voleva concedere nulla e quindi non ci si è mai veramente avvicinati a un’intesa. Era andata meglio con la parte asiatica del progetto di Obama, il Tpp. Il trattato transpacifico che coinvolgeva dodici nazioni - compresi Cile, Peru, Giappone, Australia, Malesia e Vietnam - è arrivato a un passo dal traguardo. L’intesa c’era, mancava solo la ratifica dei parlamenti nazionali. Ma in un clima di scontento economico crescente, con la globalizzazione indicata tra i principali responsabili, sia Trump che Hillary Clinton hanno dichiarato guerra al Tpp durante la campagna presidenziale e il nuovo presidente, appena eletto, ha ritirato l’appoggio all’accordo.

È il primo passo formale delle politiche protezioniste promesse da Trump. Il prossimo potrebbe essere il ridimensionamento del Nafta, il cui effetto più evidente, nel suo primo ventennio, è stato il trasferimento di fabbriche di automobili dagli Stati Uniti al Messico. Gli Stati Uniti mettono dei limiti al libero scambio internazionale per scelta politica. L’Unione Europea sta facendo lo stesso, ma per debolezza politica. Per la Dg Trade, la direzione generale della Commissione europea per il Commercio con il resto del mondo, il 2016 è stato l’anno della scoperta della propria impotenza contro i movimenti antiglobalizzazione. Evaporato il Ttip, l’Ue contava di rifarsi con il Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada. In cinque anni di trattative i negoziatori della Commissione hanno raggiunto quasi tutti gli obiettivi che si erano dati, il risultato è un’intesa considerata molto vantaggiosa per l’Europa. Ma nonostante si avvii a ottenere il via libera del Parlamento europeo questo mese, il Ceta difficilmente sarà mai operativo. I capi di governo hanno stabilito che per essere valida l’intesa debba essere approvata dai parlamenti nazionali e regionali dei ventotto Stati membri. Missione impossibile.

A ottobre è bastata l’opposizione della piccola Vallonia (regione belga che rappresenta lo 0,6% dei cittadini europei) a ritardare la firma dell’accordo, portandoci a un passo dalla sua cancellazione. I l probabile fallimento del Ceta sarà comunque poca cosa davanti alla prospettiva dell’uscita del Regno Unito dal mercato unico europeo promessa da Theresa May: gli scambi tra i Paesi dell’Ue e il Canada valgono meno di 100 miliardi di euro all’anno, quelli con il Regno Unito superano i 400 miliardi. Insomma, nonostante a Bruxelles si sforzino di continuare ad aprire l’economia europea ad altre nazioni la realtà di questi mesi mostra che sta accadendo il contrario: è il nostro mercato unico che perde pezzi. Se l’America si chiude e l’Europa è troppo disunita per trattare ecco che il presidente comunista cinese Xi Jinping può andare al World Economic Forum di Davos ed essere acclamato come il nuovo alfiere della globalizzazione. Xi, che sarebbe stato il grande sconfitto del piano di Obama, vede concretizzarsi la possibilità di rendere la Cina il perno di quello che resta del libero scambio internazionale. Il giorno dopo la firma con cui Trump ha ritirato l’appoggio degli Stati Uniti al Tpp, il primo ministro australiano Malcolm Trunbull ha proposto ai dieci compagni asiatici e sudamericani dell’intesa di andare avanti comunque e creare l’area di libero scambio semplicemente mettendo la Cina al posto degli Stati Uniti.

Ma è ovvio che una simile prospettiva non può piacere al Giappone di Shinzo Abe, che senza gli Stati Uniti rimane l’unica economia del G7 che fa parte del Tpp. Non è solo antica ostilità, quella di Abe. È anche comprensibile diffidenza all’idea di aprire il proprio mercato alla concorrenza della Cina, popolosa dittatura che ha creato giganti di Stato un’enorme sovrapacità produttiva in diversi settori e ora ha bisogno di altri mercati su cui riversarla. Europa e Stati Uniti le hanno appena chiuso le porte, negandole lo status di 'economia di mercato' nell’ambito dei patti dell’Organizzazione mondiale del commercio ( Wto), così da mantenere il diritto di imporre dazi sui prodotti che Pechino esporta sottocosto. Xi si è infuriato e ha fatto ricorso, ma servirà a poco se Trump andrà avanti anche con il progetto di uscire dal Wto. Europa e Nordamerica assieme assorbono circa il 40% delle esportazioni cinesi e rappresentano poco più di un quarto delle importazioni. Se la grande ritirata dal libero scambio porterà anche a una sorta di guerra commerciale probabilmente non vincerà nessuno, ma la Cina rischia più degli altri.


Da sapere. I «trattati» globali 

TPP È il trattato Trans-Pacifico, vi hanno preso parte 12 Paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Stati Uniti, Vietnam.

TTIP Sta per Transatlantic Trade and Investment Partnership, la trattativa per un’area di libero scambio tra l’Unione europea e gli Usa

NAFTA Il North American Free Trade Agreement, tra Stati Uniti, Canada e Messico, ispirato al modello dell’Unione europea.

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