venerdì 2 giugno 2023
L’arresto del fondatore del partito islamico moderato è la punta di un iceberg che vede tutta l’opposizione nel mirino. L’esperienza della Rivoluzione dei gelsomini volge al termine?
Tunisini in fila per il pane

Tunisini in fila per il pane - Ansa

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Dallo scorso 17 aprile, giorno dell’arresto presso il suo domicilio, Rached Ghannouchi, storico leader e fondatore del partito islamico tunisino Ennahda (La Rinascita, moderato, ndr) e numero uno del Parlamento sciolto nel luglio del 2021, è stato risucchiato nel buco nero della giustizia tunisina. Grande vecchio dell’Islam politico, in esilio in Europa per oltre 20 anni fino alla rivoluzione del 2011, Ghannouchi è stato protagonista, insieme al defunto Béji Caïd Essebsi, del compromesso fra islamisti moderati e modernisti che ha salvato la piccola Repubblica dalla guerra civile nell’immediato post-rivolta popolare. Un passaggio cruciale della storia recente reso possibile dalle sue convinzioni, maturate fin dagli anni Ottanta: l’Islam è compatibile con pluralismo, libertà, modernità e forma di governo democratica.

Negli ultimi due anni, Ghannouchi è stato più volte interrogato dagli inquirenti nell’ambito di diversi filoni di indagine. In primis quella sul Daesh (acronimo arabo del sedicente Stato islamico di Iraq e Siria): la magistratura tunisina accusa gli islamisti moderati di Ennahda di aver avuto un ruolo strategico nel reclutamento di volontari da inviare nei teatri di guerra del Vicino Oriente e raccolto fondi a sostegno dell’organizzazione terroristica. L’uomo politico è stato sentito anche nella cornice di presunti episodi di corruzione, riciclaggio di denaro, concussione. Tutti fatti – secondo l’ipotesi della procura – collegati alla gestione finanziaria delle casse di Ennahda. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe un discorso pubblico tenuto dall’81enne pochi giorni prima del suo arresto, in occasione di un comizio. «La Tunisia senza Ennahda, senza islam politico, senza sinistra né altre componenti, è un progetto di guerra civile», ha scandito il leader. Per chi lo conosce da vicino, un altolà accorato alla presidenza di Kaïs Saïed, sempre più simile ad un regime, al fine di ripristinare un terreno comune di dialogo, prima che i fautori dello scontro armato come unica strada possibile prevalgano e gettino il Paese nel caos.

La denuncia per cospirazione e istigazione al terrorismo sarebbe stata presentata da una sigla sindacale della polizia della capitale. Le autorità hanno associato al fermo del leader la chiusura sull’intero territorio tunisino di sedi del partito islamista e di altri movimenti di opposizione riconducibili al Fronte di salvezza nazionale, ombrello sotto al quale sono confluite tutte le maggiori forze politiche anti-Saïed. La procedura è frutto di una circolare del ministero dell’Interno, che evoca un frangente di particolare pericolo per la sicurezza del Paese. Due settimane fa, infine, il colpo di scena giudiziario, che ha il sapore di una resa dei conti politica: la condanna a un anno di carcere in contumacia – perché Ghannouchi, in prigione, non è voluto comparire in aula, ritenendo il processo una “farsa”– per apologia di terrorismo. La sentenza prevede anche una multa di 1.000 dinari (all’incirca 300 euro).

La vicenda, in realtà, rappresenta la punta di un iceberg: tutta l’opposizione attraversa il momento più basso della sua storia recente. I nomi eccellenti della scena tunisina messi a tacere sono in costante aumento: fra di essi, il giurista e uomo politico Jawhar Ben Mbarek (professore universitario di diritto costituzionale, ha fondato l’iniziativa democratica “Cittadini contro il colpo di Stato”, in aperta contestazione del congelamento del Parlamento da parte del presidente Saïed a fine luglio 2021), l’avvocato e segretario generale del partito al-Joumhouri (partito Repubblicano) Issam Chebbi, l’attivista Chaima Aïssa (sociologa, scrittrice e giornalista, in prima fila per i diritti delle donne, Aïssa è una figura ugualmente stimata fra islamisti e modernisti), gli avvocati e oppositori Ghazi Chaouachi (fondatore di Attayar, partito di ispirazione social-democratica) e Rida Belhaj (a lungo segretario del gabinetto presidenziale sotto Béji Caïd Essebsi ed esponente di spicco del partito liberale Nidaa Tounès).

In seno a Ennahda, invece, segnaliamo anche il fermo di Abdelhamid Jelassi: nonostante le dimissioni “preventive” dal partito, Jelassi è stato accusato di “complotto contro lo Stato”. E ancora: Noureddine Boutar, patron di Radio Mosaïque e giornalista. Eppure la più seguita emittente radiofonica privata non si ferma e continua a farsi megafono delle istanze democratiche. Raggiunto a Tunisi, il cronista politico Zyed Krichen, firma di punta del quotidiano al-Maghreb e commentatore storico di Radio Mosaïque, dice, con prudenza scaramantica: « Per il momento, tutto procede bene» e lascia intendere che la volontà comune in redazione è quella di andare avanti. Gli oppositori del regime che abbiamo citato – solo alcuni di coloro cui è stata tolta la libertà – sono figure di primo piano anche molto diverse fra di loro, ma con in comune appunto l’adesione al Fronte di salvezza nazionale, progetto democratico nato dodici mesi fa per coordinare uno sforzo dialogante con il presidente Saïed.

Ne fanno parte cinque partiti, fra cui quelli più noti sulla scena internazionale sono gli islamisti di Ennahda e i populisti di Qalb Tounès, Al cuore della Tunisia, fondati e diretti dal tycoon Nabil Karoui. La coalizione può contare anche su sette tra collettivi e movimenti politici e della società civile: il sopra citato Cittadini contro il colpo di Stato e Iniziativa democratica giocano un ruolo strategico. Il Coordinamento dei deputati testimonia la determinazione di un gruppo di parlamentari nel difendere le prerogative dell’organo legislativo, da Saïed invece ridotto a semplice accessorio della presidenza. Ma su chi può ancora saldamente fare affidamento il raìs, che negli ultimi sondaggi Emrhod Consulting rasenta il 60 per cento dei consensi in seno all’opinione pubblica (in caduta libera rispetto al luglio 2021, ma comunque ancora in ampio vantaggio)? Gli osservatori indicano nei nazionalisti militanti del panarabismo lo zoccolo più duro, insieme all’estrema sinistra e ai più giovani. Tutti si definiscono “sovranisti”, o comunque nazionalisti ostili a Ennahda.

I sostenitori del presidente professano una sorta di salafismo democratico: sostengono di non volere il ritorno a una dittatura, al contrario di puntare a una “democrazia delle origini”. Autentica e pura, sostengono, senza il tramite dei partiti. L’iper polarizzazione della società tunisina, con i falchi dei due fronti – pro e anti presidente – che si muovono sulla scena di una crisi economica senza apparente via d’uscita, è ciò che più preoccupa: la guerra civile, in questo momento, è un pericolo reale. Dodici anni dopo la Rivoluzione dei gelsomini, l’unico vero laboratorio democratico della sponda Sud del Mediterraneo ha chiuso i battenti. L’esperimento di pluralismo e convivenza è congelato, se non naufragato del tutto. Per chi pensa che solo armi e sopraffazione siano efficaci per arrivare alla leadership di un Paese, sono giorni di festa.

È altrettanto concreto il rischio che uno dei pesi massimi tra gli Stati della Lega araba allunghi le mani sulla piccola repubblica, dirottandola a proprio favore. E infine è reale la possibilità del default. Il palazzo di Cartagine indugia, volgendo lo sguardo confusamente in tutte le direzioni: dal club dei non allineati Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) all’Europa, dagli Stati Uniti al Golfo. A tutti, Tunisi mostra i migranti in partenza dalle sue coste come spauracchio, come già fatto dalla Turchia di Erdogan. Il tempo – politico e sociale – stringe, ma in pochi sembrano accorgersene.

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