martedì 19 marzo 2013
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​«Canterò senza fine la misericordia del Signore». La promessa del salmista, che la Chiesa rilancia tra l’altro nell’antifona d’ingresso della Messa per la memoria di Santa Faustina Kowalska, si incarna con zelo e passione nei primi interventi di Papa Francesco. Anche domenica mattina, per una dozzina di volte, tra la breve omelia in Sant’Anna e l’Angelus in piazza San Pietro, il Pontefice «preso quasi alla fine del mondo» ha rilanciato il tema-chiave del suo incipiente magistero. Lo stesso tema che ha voluto imprimere nel motto episcopale, e ora anche papale, ispirato alla figura del pubblicano Matteo: miserando atque eligendo. Un apostolo, un evangelista, ma prima un peccatore senza scuse, scelto proprio perché oggetto di profondo amore.Un privilegio? Una grazia specialissima destinata a pochi eletti? Macché. Al contrario: un lascito universale aperto a chiunque, alla sola condizione di desiderarlo e di sentirne il bisogno. Ognuno di noi come Matteo, come il "traditore" Pietro, come chiunque ne abbia «fatte di grosse».Purché si accetti di uscire da un legalismo senza sbocchi e da un modo di vivere la fede come autogiustificazione permanente. Quelle stesse inclinazioni che, poi, facilmente, ci conducono a «bastonare gli altri». Misericordia è questione di cuore, lo suggerisce in radice la parola stessa: cor, cordis. Cuori umani, cuori capaci di farsi «trafiggere», come quelli di quanti, appartenenti a tante nazioni e lingue, accolsero l’annuncio inaudito di salvezza dell’ex pescatore di Galilea, la mattina di Pentecoste. Oppure cuori pronti a indurirsi, come quelli di chi rifiutava la testimonianza del Rabbi di Nazareth, spingendolo a «meravigliarsi». Perché sempre il Signore, ce lo insegnano maestri come Silvano Fausti, si meraviglia quando vede l’uomo esercitare la sua libertà, nell’uno o nell’altro senso. Ma misericordia non è solo attitudine del cuore. Nella Bibbia è anzitutto parola creatrice e poi, soprattutto, ricreatrice. È il suo amore che spinge l’Onnipotente a chiamare all’esistenza tutto ciò che siamo e che vediamo. È il desiderio di contemplare la propria opera e di compiacersene, in particolare quando «è cosa molto buona» come l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza. Ché se poi la sua creatura gli volta le spalle, misericordia è capacità di promettere un nuovo e decisivo intervento: «Toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne». Uno dei termini più usati dal Vecchio Testamento, e ripresi nel Nuovo, per indicare la misericordia è quello che richiama l’utero materno, il luogo della scaturigine della vita, il santuario di quell’amore che appartiene all’«abisso incomprensibile» della tenerezza divina, richiamato domenica da Papa Francesco. È splendido l’invito rivolto, nel suo dialogo immaginario, al peccatore incallito che gli obietta l’enormità delle sue colpe: «Meglio! Vai da Gesù: a Lui piace se gli racconti queste cose». In quel "piacere" intimo e ineffabile della Trinità, in quel moto viscerale gravido di perdono amoroso, si cela e si rivela la chiamata alla vita nuova in Cristo. È l’invito che il vecchio Nicodemo non capiva, perché non gli era chiaro che si tratta, sì, di rientrare nel seno materno, ma in un modo che solo la fede frutto della misericordia può consentire. Perché questo è forse il punto decisivo: la felix culpa alla quale inneggia l’inno vittorioso che apre la Veglia di Pasqua, diventa davvero sorgente di felicità quando viene umilmente ammessa: sempre, anche se «dopo un mese siamo nelle stesse condizioni». Guai a «stancarci di chiedergli perdono», cadendo vittime del grande peccato dell’orgoglio. L’unico che può rendere sterile il grembo misericordioso della rinascita.
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