Il discrimine nella manovra
sabato 26 agosto 2023

Col nuovo autunno alle porte tornano problemi antichi: il bilancio da far quadrare per il 2024. Passati i tempi delle manovre super espansive per le emergenze varie (il Covid prima, il caroenergia per la guerra un anno fa, con i soldi garantiti dalla Bce), riviste talune scelte senza criterio come il Superbonus 110% e smaltita la sbornia da «cresciamo più degli altri» (dato vero, sì, ma che era “drogato” dal turismo e che ha lasciato inalterati i nodi strutturali del Paese), per il governo Meloni è forse la sfida più impegnativa fra le tante da affrontare, dal salario minimo in giù. Una manovra che vedrà l’esecutivo obbligato a passare dalla retorica delle promesse elettorali alla realtà dei fatti e che sarà densa di scelte politiche, per quel che verrà fatto e ancor più per quel (tanto) che dovrà essere lasciato fuori.

Doverosamente, nei giorni scorsi il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è andato in avanscoperta premettendo quel che tutti sapevano: la coperta è corta e non si potrà far tutto. Tanto più che la sola riduzione di tasse e contributi sul lavoro (il cuneo) vale circa 9 miliardi di euro e non è pensabile che il governo vi rinunci, per il danno che arrecherebbe a lavoratori a basso reddito.

Ma sarebbe già molto accontentarsi di poco, ovvero almeno di un paio di scelte chiare: in primis, la rinuncia all’eterna tentazione delle spese in deficit, scorciatoia che ha alimentato quel debito pubblico che oggi è il padre di tutte le zavorre; e – anche se qui si entra in terreno para-utopico – qualche cenno di una seria revisione della spesa, che vada al di là di quelli che si è voluto dare ai danni dei meno abbienti (vedi la riforma del Reddito di cittadinanza). Senza rinnovare la logica di un anno fa, quando furono decisi tagli lineari anche a settori-chiave come l’istruzione.

È soprattutto su questi crinali che si misurerà il calibro di questo governo di destra-centro, per valutare il suo reale apporto di novità e cambiamento. Ad aggravare la cornice si ci è messo il quadro internazionale: l’economia frena, persino la Germania è entrata in recessione tecnica, seguita dall’Olanda; e non sono ancora chiari i possibili effetti della crisi immobiliare cinese. In ogni caso, la recessione eventuale non fa che aumentare l’accortezza con cui predisporre la manovra.

Per affrontare la quale la premier Meloni e Giorgetti sembrano puntare anche sul rapporto con la Ue, chiamata allo snodo delle nuove regole con cui riavviare dal 2024 il Patto di stabilità e crescita, cioè la cornice economica che ogni Stato membro deve rispettare. Un’eventuale “benevolenza” europea (da compensare magari con l’atteso via libera alla ratifica italiana del Mes) ci sgraverebbe da una correzione di mezzo punto di Pil per un deficit oggi previsto l’anno venturo al 3,7%; non andrebbe intesa però come l’ennesimo lasciapassare a pratiche deleterie di “soldi facili” e regalie varie con cui infarcire la manovra, alla faccia della buona gestione dei conti pubblici. La spesa va tenuta sotto controllo e le entrate vanno bilanciate rafforzando i recuperi dall’evasione.

In presenza di una mole di 1.085 miliardi (a tanto ammonta la spesa pubblica), ben 5,5 miliardi potrebbero essere liberati da una revisione pari allo 0,5%; 11 miliardi arrivando all’1%. Pur ben sapendo che una fetta cospicua di spesa è “bloccata” da voci non comprimibili come gli interessi sul debito e le prestazioni sociali, non dovrebbe essere un ostacolo insormontabile. Sarebbero risorse preziose per dare comunque un qualche segnale. Le esigenze non mancano, ancor prima di scriteriati aumenti delle spese militari e di progetti come il Ponte sullo Stretto: dalla sanità alla scuola, ecc. Negli ultimi giorni, vari esponenti di governo (Mantovano, Giorgetti stesso, Roccella) hanno messo l’accento sulla denatalità come sfida chiave: un qualche intervento in tal senso (gli asili-nido?) non va tralasciato, a esempio.

Così come sarebbe ora di affrontare davvero un tema come la pensione di garanzia per quei lavoratori con carriere discontinue, il cui numero cresce sempre più. Per non dire delle misure necessarie per aprire alla concorrenza molti settori nei servizi e per rendere più efficiente il sistema pubblico. Tempi nuovi, come quelli che il governo Meloni suppone di aver inaugurato, richiedono anche uno spirito nuovo. È quello che tutti noi aspettiamo di vedere in azione.

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