domenica 27 agosto 2023
Per il Successore di Pietro è il cammino irrevocabile e irreversibile. Perché è la strada della Chiesa di Roma, che presiede nella carità tutte le Chiese
Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo nel 2014

Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo nel 2014 - .

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Con la serie «Io seguo la Chiesa» Avvenire propone a cadenza settimanale ogni domenica un viaggio attraverso il magistero di Papa Francesco e della sua missione. Le analisi della vaticanista Stefania Falasca si concentrano sulle linee maestre del Concilio Vaticano II che sono state seguite e portate avanti da papa Francesco nel solco della Tradizione.

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Quando il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, la sera del 13 marzo 2013, ascoltò le prime parole del nuovo papa Francesco pronunciate immediatamente dopo la sua elezione dal balcone della Basilica di San Pietro, prese il primo aereo e arrivò a Roma per poterlo incontrare. E fu il primo Patriarca di Costantinopoli, Successore dell’Apostolo Andrea, a partecipare alla cerimonia d’inizio di un pontificato in Vaticano. Le parole che lo colpirono? « E adesso incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese». Francesco riprendeva le parole esatte di un teologo del primo secolo, un Padre della Chiesa, allora indivisa, e venerato poi santo dalla Chiesa ortodossa quanto dalla Chiesa cattolica: sant’Ignazio di Antiochia, detto l’Illuminatore. E con quelle parole, evidenziando che è Vescovo di Roma – motivo per il quale è Papa, sorgente del suo ministero universale – affermava ed evidenziava anche il compito che gli è affidato in quanto Successore di Pietro: quello dell’unità.

Da sempre, infatti, il Vescovo di Roma è chiamato a custodire, a ricercare e a servire l’unità, non solo all’interno della Chiesa, ma anche con i fratelli cristiani, per rispondere alla preghiera di Cristo stesso al Padre che chiede che tutti « Ut unum sint, tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21), comando rivolto non solo agli Apostoli ma a tutte le comunità cristiane della storia. E se la Chiesa di Roma, proprio perché fondata su Pietro, porta con se la responsabilità ecumenica di promuovere un dialogo nella carità con le altre Chiese sorelle e di origine apostolica, a lei spetta il compito di indicare cosa già unisce i cristiani. Fin dall’inizio del suo ministero petrino Francesco aveva perciò rimarcato nel solco della Tradizione le priorità nella strada che avrebbe percorso, in continuità con i suoi Predecessori da Giovanni XXIII che – alla luce della risalita alle sorgenti del Concilio Vaticano II – avevano maturato «l’urgenza della causa dell’unità», proponendo il dialogo ecumenico come dimensione ordinaria ed imprescindibile della vita di ogni Chiesa particolare. Francesco, nella celebrazione della sua prima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, invitava quindi «a porsi di fronte a Cristo» per comprendere come le separazioni tra cristiani non possono in alcun modo essere considerate qualcosa di naturale, inevitabile, come avviene per qualunque associazione, perché la Chiesa non è un’associazione, è il corpo di Cristo, il quale non è diviso, ma viene ferito proprio dalle divisioni che sono scandalo per il mondo e indeboliscono il messaggio salvifico che i cristiani sono chiamati ad annunciare e a vivere nel mondo. Metteva perciò subito in chiaro che la costruzione dell’unità di cristiani non è una strategia, è «un processo spirituale», un «cammino irreversibile», «che si realizza nell’obbedienza fedele al Padre, nel compimento della volontà di Cristo e sotto la guida dello Spirito Santo». Un impegno, in sostanza, che non può essere opzionale e ad esso si deve mirare perché è evidente che le divisioni tra cristiani mettono in gioco la stessa credibilità della loro predicazione, come afferma nella sua prima esortazione apostolica Evangelii gaudium riprendendo il decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II Unitatis redintegratio.

Ed è proprio questa adesione completa al messaggio di Cristo, la volontà dell’incontro tra fratelli per una testimonianza comune, il propulsore del cammino verso l’unità che ha motivato in tante occasioni lo scambio dell’abbraccio e del bacio di pace non solo tra chi presiede la sede di Roma e quella di Costantinopoli. E non solo con capi delle grandi comunità, come quello storico avvenuto nel 2016 all’aeroporto di Cuba con il Patriarca Kirill di Mosca. In questi oltre dieci anni di ministero petrino Francesco ha incontrato quasi tutti i primati e i responsabili delle Chiese cristiane. Una fitta sequela di incontri a cominciare dal pellegrinaggio in Terra Santa, la «madre di tutte le Chiese», che nel 2014 ha voluto compiere insieme al «fratello Bartolomeo», inaugurando così anche la serie dei viaggi apostolici ecumenici fino a quello in Sud Sudan lo scorso febbraio che ha visto per la prima volta anche la conferenza stampa congiunta sul volo papale di ritorno – con l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby e il moderatore della Chiesa presbiteriana di Scozia, il reverendo Iain Greenshields.

Con Bartolomeo al suo fianco diede avvio anche agli incontri per la pace dando appuntamento in Vaticano, per pregare insieme per la Siria, all’allora presidente israeliano e il presidente dell’Autorità palestinese. E per la prima volta anche un’enciclica, la Laudato si’, sulla cura del creato, può dirsi ecumenica per la comune, fraterna responsabilità, quella stessa che Atenagora, nel gennaio del 1969, proprio su “Avvenire”, esprimeva con un “noi” per «offrire insieme orientamenti di speranza al mondo». E sempre con Bartolomeo Francesco ha voluto mettere il dito nella piaga dei poveri, nel dramma epocale dei profughi andando nel 2016 in una visita congiunta anche il Patriarca di Atene Hieronimo nel campo profughi dell’isola greca di Lesbo. E poi a Ginevra e prima ancora a Lund in Svezia nell’ottobre 2016 per la commemorazione congiunta tra cattolici e luterani, che non sarebbe stata possibile senza la sottoscrizione comune della Dichiarazione sulla giustificazione firmata ad Augusta nel 1999 e che comprende anche un diverso sguardo sulla storia e le ferite del divorzio tra cattolici e luterani compiuto cinque secoli fa, a cui ha portato un cammino ecumenico di dialogo teologico luterano cattolico lungo cinquant’anni, nato sotto l’impulso della grazia del Vaticano II. « Da quando è stato promulgato il decreto conciliare Unitatis redintegratio, più di cinquant’anni fa – ribadiva il Papa nell’ intervista che mi ha concesso ad “Avvenire” a ritorno di quel viaggio ecumenico – si è riscoperta la fratellanza cristiana basata sull’unico battesimo e sulla stessa fede in Cristo, il cammino sulla strada della ricerca dell’unità è andato avanti a piccoli e grandi passi e ha dato i suoi frutti. Continuo a seguire questi passi […] Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior, per dirla secondo quel processo espresso nella fisica aristotelica. Io proseguo sulla strada di chi mi ha preceduto, seguo il Concilio».

«Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme. Lo scandalo va superato facendo le cose insieme con gesti di unità e di fratellanza – ribadì in quella intervista – In questo momento storico l’unità si fa su tre strade: camminare insieme con le opere di carità, pregare insieme, e poi riconoscere la confessione comune così come si esprime nel comune martirio ricevuto nel nome di Cristo, nell’ecumenismo del sangue. E queste sono tutte espressioni di unità visibile. Pregare insieme è visibile. Compiere opere di carità insieme è visibile. Il martirio condiviso nel nome di Cristo è visibile». E se per il Papa il cammino ecumenico è un cammino di conversione di ciascuna Chiesa, per le singole Chiese verso l’essenziale della fede, un cammino di purificazione dalle proprie incrostazioni, di approfondimento e quindi di risalita alle sorgenti, al Vangelo, progredire in questo essenziale è il suo insegnamento, ed è la salvezza non solo della Chiesa cattolica e di tutte le Chiese cristiane, ma per l’intera famiglia umana. I n questo orizzonte si ascrive dunque la visione ecumenica di Francesco, compiuta nella carità e nella verità. Egli ha riportato alla coscienza comune – non solo quindi come occupazione degli specialisti – il desiderio dell’unità. Ha rimesso in luce come il dialogo ecumenico non sia una disputa ma uno «scambio di doni».

E che nel comune battesimo che unisce i cristiani possono insieme promuovere la pace e la giustizia, la dignità umana: «Noi cristiani possiamo annunciare a tutti la forza del Vangelo impegnandoci a condividere le opere di misericordia corporali e spirituali. Questa è una testimonianza concreta di unità fra noi cristiani: protestanti, ortodossi e cattolici». Ed ha ribadito come il cammino ecumenico si fondi sul fatto che «ciò che ci unisce è molto più grande di ciò che ci separa». Francesco dunque non è il promotore di un ecumenismo “a cavallo”, frutto di galatei ecumenisti, diplomazie o strategie di politica ecclesiastica. I gesti fin qui compiuti, che si iscrivono nella tradizione dei Pontefici precedenti, traducono nella vita concreta una delle convinzioni fondamentali del decreto conciliare Unitatis redintegratio, che è questa: « Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione ». Conversione che non è primariamente quella degli altri, ma è la propria, perché «prima di un andare verso l’altro, l’ecumenismo è un andare verso Cristo, è convertirsi». È perciò andando avanti su questa strada che si può riscoprire l’unità: « L’unità non verrà come un miracolo alla fine, viene nel cammino, la fa lo Spirito Santo nel cammino, camminare insieme è già fare l’unità».

Papa Francesco ha disseminato così il suo magistero soprattutto di gesti consapevoli il cui peso specifico va misurato al di la dei risultati immediati. Il pellegrinaggio ecumenico che si è compiuto in Sud Sudan in un paese martoriato dalle guerre è un fatto storico che sottolinea e amplifica nuovamente le prospettive di un percorso indispensabile e irreversibile tra Chiese cristiane urgentemente richiesto dai segni dei tempi, nei quali l’impegno e il servizio comune delle Chiese cristiane e dei loro responsabili esigono di offrirsi testimoni come lievito per favorire la giustizia, la fratellanza e la pace dei popoli.


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