martedì 8 dicembre 2015
​Il Califfato vuole il petroli. Se vince è la "fine del gioco".
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Il drone scivola pigro e silenzioso lungo la Via Balbia, la strada costiera inaugurata nel 1937 da Benito Mussolini che si stende per 1.822 chilometri da Ras Ajdir al confine con la Tunisia alla città confinaria egiziana di Sollum. Ma di quel lungo arco litoraneo – vanto e orgoglio del governatore Italo Balbo e tuttora l’unica arteria commerciale degna di questo nome – agli occhi aguzzi del drone interessa un breve tratto, quello che da Sirte si spinge a Ras Lanouf e ad Ajdabiya, a centocinquanta chilometri da Bengasi. Perché è qui, tra Sirte e Bengasi che il Daesh ha piantato da tempo le tende e sempre qui, alle spalle degli oleodotti di Defa, Amal, e Messla che il Califfato ha esautorato le milizie di Ansar al-Sharia inalberando le proprie nere bandiere. Alle finanze del Califfato quelle raffinerie, quei giunti di dilatazione che pompano il greggio che per lunghi anni ha assicurato alla Jamahiryia un relativo benessere garantendo a Gheddafi il consenso popolare fanno più gola dell’oro. Colpita al cuore dall’aviazione russa e successivamente da quella francese e britannica, la tratta del greggio siriano e iracheno del Daesh non può più assicurare alle casse del califfo il suo quotidiano milione e mezzo di dollari. Per questo il petrolio libico diventa strategico. Non è un caso che da qualche settimana gli uomini del Daesh hanno cominciato a mietere vittime fra i capi militari, gli intellettuali e i leader religiosi di Ajdabiya: dal segretario della shura (il consiglio cittadino) al professor Saleh Rahil, dall’imam Faraj al-Aribal al colonnello Ateya al-Oreibi, capo dell’intelligence militare, fino allo sceicco salafita Mahmoud Bourawi al-Hamal, assassinato con un’autobomba. «Eliminando la classe dirigente della zona – dice Fatoush Ouali del quotidiano Al Watan – si spiana la strada alla conquista di Ras Lanuf, Ajdabiyia e della zona dei pozzi. Il pericolo è più che reale. La Libia rischia di diventare una specie di 'hub' per il Daesh». Ed anche un secondo serbatoio di profitti petroliferi. Il drone scruta, filma, immagazzina dati e li rielabora. Niente in fondo che già non si sappia: Sirte, città madre di Muhammar Gheddafi, è da mesi in mano al Daesh. A sottometterla ci hanno pensato tremila miliziani, e da allora qui si amministra la giustizia, s’impone la sharia, si vieta ai barbieri di tagliare la barba agli uomini, si obbligano le donne a vestirsi esclusivamente di nero, le stazioni radio hanno il divieto di trasmettere qualunque genere di musica e soprattutto a Sirte s’indottrinano battaglioni e reparti di giovani guerrieri e s’addestrano futuri kamikaze. Fonti saudite assicurano che in città vi sia un prezioso simulatore di volo dove gli emuli di Mohammed Atta (il qaedista egiziano che nel 2001 dirottò il volo dell’American Airlines portandolo a schiantarsi contro la Torre Nord del World Trade Center) si esercitano per imparare a padroneggiare le tecniche di volo. Il drone non viaggia mai solo. Come lui ce ne sono tanti, francesi, inglesi, americani, anche italiani. Uno sciame di occhi-spia che fa presagire qualcosa di più di una semplice missione di routine. Da qualche giorno i Rafale francesi hanno iniziato a compiere ricognizioni sopra Sirte, in coppia con i P3 Orion americani.

«La Libia – spiega Nashnush – è un Paese diviso e lacerato dove accade di tutto. Fino a poco tempo il Fezzan era una vantaggiosissima area di transito e di traffico di ogni tipo di merci, dalle armi alla droga, dagli organi ai terroristi. Ora però il Paese rischia di diventare qualcosa di più pericoloso ancora: perché il Daesh, forse perché sta cominciando avere seri problemi sul campo in Siria e in Iraq sta trasferendo qui uomini e risorse. E non so dire se per aprire un secondo fronte e alleggerire la pressione su Raqqa o per aumentare il caos che già predomina nel mio Paese». Nashnush, uomo di lunga militanza nei servizi di sicurezza di Tripoli, ha ragione. Anche quando mi rammenta che quasi un migliaio di combattenti del Daesh in Siria provengono dalla Libia ed ora stanno tornando a casa con una preziosa esperienza sulle spalle e l’intenzione di estendere ulteriormente il terreno d’influenza del Califfato. Gli strateghi stessi di al-Baghdadi sanno bene che la Libia è la più grande polveriera pronta ad esplodere alle porte meridionali d’Europa, così come l’Europa sa che ai propri confini c’è un bubbone pericolosamente pronto a deflagrare. Per questo uomini e macchine studiano, scrutano e si preparano. Ma a cosa? A un attacco? A un’invasione?  Qualcosa sotto traccia in effetti si muove. Uomini, spie, osservatori, informatori, corpi d’élite. C’è di tutto in Libia, e non da oggi. «L’Occidente vuol capire che cosa succede e cosa sta per succedere – dice una fonte tedesca – e voi italiani siete in prima linea nell’attività di intelligence». È vero, anche se di conferme ufficiali non vi è traccia. I libici più avveduti, quelli che passano i pomeriggi a scrutare il cielo e a campionare il numero e il tipo di sorvoli di ricognizione sono convinti che ci sarà un intervento militare. Ma a dispetto delle pressioni, soprattutto americane, non tutti sono del parere. L’Italia per prima. Come dice lo stesso premier Renzi: «Abbiamo utilizzato la strategia dei bombardamenti in Libia nel 2011: alla fine cedemmo a malincuore alla posizione di Sarkozy. Quattro anni di guerra civile in Libia dimostrano che non fu una scelta felice». A Bruxelles la pensano diversamente. «La Nato – ha annunciato due giorni fa il segretario generale Jens Stoltenberg – è pronta a intervenire in Libia, se si formerà un governo di unità nazionale e se chiederà assistenza per ricostruire le proprie capacità di difesa. Non stiamo discutendo di una nuova grande operazione militare in Libia, e del resto non mi sentirei di raccomandarlo. Ma se si formerà un governo di unità nazionale, siamo pronti ad aiutarli fornendo assistenza, se ce ne farà richiesta».  Ma è su quel 'se' che si nutrono i dubbi peggiori: alla vigilia della Conferenza sulla Libia che su impulso dell’Italia si terrà a Roma il 13 dicembre alla presenza di John Kerry, Sergeij Lavrov e i rappresentanti oltre 40 Paesi, un gruppo di delegati dei due Parlamenti rivali – quello islamista di Tripoli e quello di Tobruk riconosciuto dalla comunità internazionale – hanno firmato a sorpresa a Tunisi un’intesa per nominare un governo di unità nazionale. Ma c’è un piccolo problema che può diventare decisivo: l’intesa – che a sua volta non raccoglie la maggioranza dei due Parlamenti – non rispetta il piano messo a punto dal controverso ex mediatore dell’Onu Bernardino Leon e portato avanti dal suo successore, Martin Kobler e prevede la formazione di un comitato di 10 persone, formato da 5 deputati di ciascuna delle due parti, che a loro volta sceglieranno entro due settimane il premier e due vicepremier, uno espressione del General National Congress (Gnc) di Tripoli, l’altro del Parlamento di Tobruk. «Una spinta ulteriore verso il caos, di cui noi libici purtroppo siamo maestri», commenta Nashnush. «Lo ammetto, è difficile far capire al mondo che da Ajdabiya passa l’intero futuro della Libia. Se Ajdabiya cade nelle mani del Daesh, resteremo senza il petrolio e il gas che tengono in vita la nostra fragile economia». E per la Libia sarebbe, per dirla con gli analisti del Pentagono, game over , fine del gioco, anzi, di ogni possibile gioco. Forse è per questo che non c’è molto tempo da perdere. 

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