sabato 1 novembre 2008
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Tornano a soffiare con prepotenza i venti di guerra nella regione congolese del Nord Kivu, a riprova che la conflittualità da quelle parti non s’è mai sopita, nonostante le innumerevoli iniziative negoziali messe a punto in questi anni dalla diplomazia internazionale e il dispendioso invio di una missione di pace sotto l’egida dell’Onu. Mentre scriviamo, un’orda di miliziani al soldo del potente "signore della guerra" Laurent Nkunda, raggruppati nel Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) – una formazione congolese d’estrazione banyamulenge, imparentata all’etnia tutsi – hanno conquistato zone strategiche attorno al capoluogo regionale, la città di Goma, cingendola praticamente d’assedio. E questi agguerriti combattenti, che già nel passato si sono macchiati di crimini orrendi – anche se non sono stati gli unici responsabili delle nefandezze perpetrate in questi anni nell’Est della Repubblica Democratica del Congo – potrebbero da un momento all’altro, senza problemi, entrare nella città congolese, mettendola a ferro e fuoco, non appena il contesto internazionale lo consentisse con l’appoggio politico e militare del vicino Rwanda. Sta di fatto che le autorità di Kinshasa accusano senza mezzi termini le truppe di Kigali d’essere già penetrate ripetutamente nel Nord Kivu per sostenere l’offensiva dei seguaci di Nkunda, ma il governo ruandese smentisce. Una situazione di rischio estremo, come ha dichiarato il ministro degli esteri francese Bernard Kouchner il quale ha evocato «il rischio di nuovi estesi massacri» in una terra già duramente provata dalle violenze nel passato. È in questo contesto che s’inserisce il contributo che l’Unione europea pare intenda offrire inviando un contingente di peace-keeping, una sorta di forza d’interposizione, capace di garantire l’incolumità della stremata popolazione civile. Dietro le quinte vi sono solo marginalmente rivalità etniche, mentre la vexata quaestio è legata anzitutto e soprattutto al controllo delle immense risorse minerarie del Kivu settentrionale e meridionale. A ciò si aggiunga il ruolo destabilizzante del vicino Ruanda che dall’avvento al potere del presidente Paul Kagame anela al pieno controllo dei territori disseminati sul versante orientale dell’ex Zaire. Non è un caso se la maggioranza degli analisti concorda nel sostenere che finché non sarà data al piccolo Paese delle Mille Colline – densamente popolato e militarmente agguerrito – la possibilità di usufruire, almeno in parte, delle sconfinate ricchezze del gigante congolese – veri e propri tesori di poco oltre un confine geograficamente inesistente – l’intera Regione dei Grandi Laghi continuerà ad essere una polveriera in cui gli interessi stranieri costituiranno un fattore altamente destabilizzante. Già nella seconda guerra congolese, quella esplosa il 2 agosto del 1998 e durata 5 anni, persero la vita oltre 4 milioni di persone e dal 2003 il computo complessivo dei morti potrebbe aver toccato i 5 milioni stando a fonti umanitarie. Sarebbe pertanto ora che la comunità internazionale uscisse allo scoperto denunciando ed impedendo i soprusi perpetrati contro l’inerme popolazione civile. Il clamoroso fiasco della costosissima missione di pace dei 17mila caschi blu dispiegati sul campo per volere esplicito delle Nazioni Unite (Monuc) non solo indica il fallimento della più imponente e costosa missione di pace nella storia dell’Onu, ma è soprattutto sintomatico della mancanza di volontà politica nel sostenere il processo di riconciliazione, mettendo a freno la bramosia di potentati stranieri più o meno occulti che si contendo le ricchezze del sottosuolo congolese. Di fronte a questo inferno di dolore, la società civile, Chiesa Cattolica in primis, rimane l’unica voce davvero libera in grado di dare conforto a tanta umanità dolente. La memoria del compianto arcivescovo congolese, Christophe Munzihirwa, ucciso in questo scenario infuocato nell’ottobre del 1996, rappresenta un indubbio motivo di speranza guardando al futuro. Egli soleva ripetere che «ci sono cose che solo gli occhi che hanno pianto possono vedere». D’altronde, le parole da sole non potranno mai bastare per descrivere una realtà così lontana dai media internazionali.
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