martedì 19 giugno 2012
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​«Come mai senza saperlo, hai diretto tutto a un centro? Logica interna, provvidenza, istinto vitale?» Così si interrogava, nel novembre del 1943, Cesare Pavese nel suo diario significativamente intitolato Il mestiere di vivere. Tutte le volte che sfoglio la mia vecchia copia, comprata su una bancarella dell’usato tanti anni fa, mi domando quale sia il mestiere di vivere. ...La risposta è proprio dentro quel diario, benché quel mestiere faticoso Pavese non abbia voluto accettarlo. Egli suggerisce che il mestiere della vita sia cercare e (magari) trovare quel centro, e se questo accadrà per «logica interna, provvidenza, istinto» forse non è neanche importante, fa parte di quelle cose che nessuno sa, ma che accadono nella inesausta ricerca che la vita fa di sé stessa. È grazie a quel centro che non crolla tutto, una regione antisismica di noi che asseconda i terremoti della vita: dolori, amori, fallimenti, preoccupazioni, disperazioni. Che cosa c’entra questo con l’esame di maturità? Ricordo il mio esame di maturità. L’ansia di non riuscire a essere preparato come avrei voluto mi portava a disperdermi in mille rivoli dei programmi, ancora incapace di capire che l’informazione non basta e che la sapienza non è erudizione. L’erudizione è orizzontale, la sapienza è verticale. La sapienza è la capacità di cogliere la verità in ogni cosa nel suo legame con il tutto e quindi di comprenderla davvero. L’esame stesso me lo dimostrò. Nessuna delle tracce dei temi era un mio cavallo di battaglia. La versione era di un Cicerone più ostico del solito e non di Seneca. L’interrogazione partì dagli autori che meno amavo: Carducci e D’Annunzio. Dopo un iniziale spaesamento ho chiamato a raccolta le mie risorse. Avevo studiato, avevo amato tanti autori, avevo ore di volo, adesso dovevo aprire le ali da solo. E proprio quegli argomenti, a me meno congeniali, si dimostrarono una bellissima sfida. Potevo affrontarli da quel centro che dentro di me si era pian piano costruito, grazie ai miei maestri, senza che io me ne accorgessi, forse, troppo preso dai risultati di compiti e interrogazioni. Scoprii in me la capacità di poter guardare a una cosa nuova da un luogo della mia anima capace di leggerla, senza rimanerne paralizzata. Forse questo è la maturità: con-centrarsi, cioè portare tutta la mutevolezza imprevedibile della vita in quel centro. Pavese a un certo punto scrive, citando il Re Lear: «Ripeness is all. Maturità è tutto». E perché, mi sono chiesto – per il mestiere di vivere –, maturità è tutto? La risposta è proprio in quel passo shakespeariano: «L’uomo deve aspettare con pazienza / il suo momento di uscire dal mondo, /come aspetta il momento per entrarci. / Maturità è tutto (Ripeness is all)». Il segreto non è sapere tutto della vita, averne il bugiardino con le indicazioni e gli effetti collaterali, il segreto è essere pronti. Questo vuol dire esattamente «ripeness». Ma chi è pronto alla vita senza essere travolto ogni volta dalla sua novità o abbattuto dalla sua ripetitività? Essere pronto non vuol dire che ce la si farà a superare con successo l’ostacolo, ma che si può affrontare senza scappare. Proprio così. Maturità è non scappare dalla vita, questo è essere pronti. Maturità è dare alla vita quel consenso che comporta almeno altrettanto dolore: a ogni giorno la sua fatica. Il mestiere di vivere è portare il peso delle cose, con quel coraggio che è umiltà della vita. È proprio Lear che dirà a sua figlia, in uno dei passi più belli di tutta la letteratura, proponendole di rifugiarsi con lui, vessato tragicamente: «Così vivremo e pregheremo, e rideremo... prenderemo su di noi il mistero delle cose come se fossimo le spie di Dio, e tra i muri di una prigione vedremo consumarsi partiti e sette di potenti, che s’alzano e s’abbassano come la marea sotto l’influsso della luna». La vita è – nel suo respiro a volte calmo, a volte affannato, a volte straziato – questo sollevarsi e abbassarsi della marea. Ma l’uomo maturo è colui che in compagnia dell’altro uomo, della donna, prende su di sé il peso delle cose, il mistero di questo peso a cui spesso vorremmo sottrarci e dal quale vorremmo essere risparmiati proprio da quel Dio, del quale però – se troviamo il coraggio di vivere – diventiamo spie. Spie di Dio: sia perché è proprio quel travaglio a renderci capaci di intercettare i suoi segnali tenui, che solo poeti, bambini e santi sanno cogliere, sia perché in quel travaglio diventiamo noi stessi testimoni di quel Dio che mette sulle nostre spalle un peso che ci ha promesso essere dolce. Come è mai possibile un peso dolce? Proprio il peso delle cose ci porta a raggiungere il centro di noi e scoprire che quel centro non basta. Non basta mai. E proprio perché non basta mai si apre a Dio, il centro del centro, il cuore del cuore. Improvvisamente tutto diventa dolce, anche se ci schiaccia. Il mestiere di vivere è la maturità di portare il peso delle cose, lasciando che sia Cristo a portarlo in noi: solo lui, vera spia di Dio, ha portato il peso di tutte le cose e di tutti gli uomini. E lo ha reso dolce, per noi.
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