Il canone occidentale
mercoledì 1 novembre 2023

I risultati della recente votazione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite sulla proposta di una tregua umanitaria a Gaza (120 voti favorevoli, tra cui 7 Paesi Ue, Francia e Spagna tra essi, insieme con Russia, Cina e Brasile; 45 astensioni: oltre a Italia e Germania altri 6 Paesi Ue con Regno Unito, Giappone e India; 14 voti contrari: Usa e Israele, col sostegno di 4 Paesi Ue e una decina di Stati minori) disegna una mappa del mondo piuttosto diversa da quella a cui siamo abituati a pensare.

Da un lato, gli Stati Uniti – forse per la prima volta così isolati – con un’Europa spaccata nelle tre diverse posizioni possibili e buona parte del sud del mondo, con l’importante eccezione dell’India, schierata a favore. Un’immagine sintetica di come siano diventati fluidi gli equilibri internazionali. Al di là del contenuto specifico, la votazione aveva un chiaro contenuto politico, cavalcato dai molti falchi che stanno cercando di approfittare della crisi in corso in chiave anti occidentale. La propaganda dei tanti autocrati ha oggi buon gioco nel mescolare l’antisemitismo con il risentimento verso l’Occidente e avvelena le opinioni pubbliche di molti Paesi.

Si fa spesso l’errore di pensare di affrontare le grandi crisi solo sul piano razionale. O strategico. Ma le vicende umane si muovono sempre su piani diversi: gli interessi materiali, le emozioni collettive (a partire dalle paure), le matrici teologicopolitiche profonde. Per questo, un ruolo importante lo hanno le grandi narrazioni, che costituiscono le cornici di senso dentro cui si collocano le azioni e le decisioni dei governi, dei grandi interessi ma anche delle persone comuni.

Come scrisse Max Weber, «sono le concezioni del mondo, create da queste narrazioni che spesso determinano, come chi aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali si muove poi la dinamica degli interessi». Il racconto semplice di una globalizzazione economica che avrebbe garantito l’integrazione planetaria è ormai perduto. Da molti mesi, in particolare dall’attacco russo all’Ucraina, si sente di continuo rilanciare una narrazione opposta, ugualmente semplificatrice, che parla di scontro di civiltà. Idea nefasta, che esacerba gli animi e spinge il mondo verso il baratro.

C’è urgente bisogno di un’altra narrazione per tracciare una via di futuro in questi mesi così difficili. Lo spunto lo si può trovare nelle parole profetiche del cardinal Martini il quale, già negli anni Ottanta del secolo scorso, parlava di «convivenza delle differenze». Ad alcuni una frase del genere può suonare come la vaga speranza di un’anima bella che non ha il coraggio di guardare in faccia la dura realtà dei fatti. Ma, in realtà, è solo adottando senza ingenuità una prospettiva come questa che si può sperare di riuscire ad attraversare sensatamente il tempo che ci aspetta.

Si dirà: ma come fare ad andare in questa direzione se c’è chi – come Putin o Hamas o l’Iran – è palesemente disinteressato a questa via? In realtà, anche i violenti vivono di un racconto che strumentalizzano per i propri fini. Ed è su questo piano che possono e debbono essere sfidati e battuti. Perché il bene è molto più ragionevole del male. A condizione che sia capace di mobilitare le energie spirituali dei popoli. Muoversi in questa direzione è vitale per l’Occidente. Che deve interrogarsi su quale ruolo vuole giocare nel nuovo scenario globale. Negli ultimi trent’anni la nostra cultura si è fatta conoscere soprattutto per la tecnologia, i consumi, il benessere.

Ma la sostanza della nostra storia – che qualche volta rischiamo di perdere anche noi – è ben altra. L’Occidente, che nasce dall’amalgama tra cultura greca, ebraica, cristiana e illuminista, si fonda infatti sull’idea di persona, libera e responsabile. E sulle istituzioni necessarie per permettere la sua libera espressione. Per questa ragione ha dovuto faticosamente fare i conti con la pluralità e la differenza. È per questa ragione che la “convivialità delle differenze” (e quindi delle culture) è il contenuto e il metodo fondamentale che l’Occidente può portare al futuro del mondo in subbuglio. Lavorando concretamente per costruire strumenti istituzionali efficaci per dirimere i conflitti, arene culturali ed economiche per accogliere la diversità, occasioni di dialogo come antidoto preventivo allo scontro.

Nel nuovo mondo che si profila ormai davanti a noi pensare di imporsi in base alla legge del più forte non porta da nessuna parte. La potenza tecnologica e militare può fare da deterrente, ma da sola non basta. Quello che serve è un nuovo universalismo – un modo di pensare e praticare ciò che è universale – custodito dall’Occidente nella sua stessa origine. Anche se sovente sembra dimenticarlo. Dalle crisi più profonde si può uscire a pezzi oppure rafforzati. Così quello che sta accadendo in questi mesi costituisce un banco di prova molto impegnativo per l’intera umanità. Riuscire a riportare lo scontro sul piano politico e negoziale non solo darebbe una mano al mondo ma aiuterebbe moltissimo la credibilità occidentale. Alternative, in realtà, non ce ne sono.

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