mercoledì 1 marzo 2023
Sono ormai evidenti i costi di lungo periodo generati da norme che si limitano ad assecondare la richiesta di manodopera a buon mercato senza misurarsi coi temi dell’equità e della sostenibilità
L’arrivo al porto di Ravenna, il 18 febbraio scorso, della Ocean Viking, la nave dell’Ong Sos Mediterranée, con a bordo 84 migranti, di cui 59 minori

L’arrivo al porto di Ravenna, il 18 febbraio scorso, della Ocean Viking, la nave dell’Ong Sos Mediterranée, con a bordo 84 migranti, di cui 59 minori - Ansa

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L’ennesima tragedia del mare che si è compiuta in questi giorni torna a rammentarci quanto si sia drammaticamente lontani dall’obiettivo di un sistema di governance globale in grado di garantire una migrazione “sicura, ordinata e regolare” secondo gli auspici del Global Compact promosso dalle Nazioni Unite e adottato nel 2018 (ma ancora non sottoscritto dall’Italia). Tuttavia, non sono “solo” considerazioni di carattere umanitario a rendere urgente il potenziamento dei canali per la migrazione legale. La gestione delle migrazioni – e delle stesse migrazioni “volontarie”, ovvero dei cosiddetti migranti economici – è destinata a divenire una questione sempre più rilevante nel quadro di quasi tutti i Paesi economicamente avanzati.

Gli scenari demografici delineano, infatti, il rischio di una carenza strutturale di risorse umane, che riguarda soprattutto i settori e i profili professionali in cui il volume decrescente della popolazione in età attiva aggrava le difficoltà di reclutamento dovute alla scarsa attrattività di alcuni lavori o alla carenza di lavoratori qualificati. Quella che si preannuncia è una competizione globale per l’attrazione di migranti con diversi livelli di qualificazione che vedrà in concorrenza Paesi accomunati tanto dalla difficoltà a garantire il turnover delle folte generazioni di baby boomers che si avviano all’età del pensionamento, quanto dall’espansione dei fabbisogni di personale collegata alle stesse dinamiche demografiche (l’aumento dei “grandi anziani” bisognosi di assistenza in primis) e ai mutamenti negli stili di vita e nei consumi.

La dipendenza ormai strutturale dalla manodopera d’importazione è apparsa evidente nelle fasi più acute della pandemia quando, insieme all’imbarazzante gap tra, da un lato, il ruolo essenziale svolto da immigrati e immigrate e, dall’altro, il loro riconoscimento sociale e retributivo, studiosi indipendenti e agenzie internazionali si sono trovati d’accordo nel denunciare la distanza tra le politiche migratorie (quasi ovunque finalizzate a contenere e selezionare gli ingressi) e la realtà dei processi di inclusione, fatta soprattutto di migranti che svolgono lavori di bassa qualità. E che spesso approdano al mercato del lavoro attraverso la “back door” (la porta sul retro, cioè l’ingresso irregolare) o la “side door” (ossia attraverso canali come il ricongiungimento familiare o la richiesta d’asilo, una sorta di porta laterale), dopo aver trovato chiusa la “front door”, la porta di ingresso principale costituita dagli schemi per il reclutamento dei lavoratori migranti.


Non sono solo considerazioni di carattere umanitario a rendere urgente il potenziamento dei canali di ingresso legale. La gestione del fenomeno diventerà una questione sempre più rilevante in quasi tutti i Paesi economicamente avanzati

In tale quadro, l’Italia è un caso al contempo anomalo e paradigmatico. Anomalo perché è uno dei pochi Paesi ad aver mantenuto aperto, dagli anni Novanta, un canale di ingresso anche per i lavoratori a bassa qualificazione (costituito dal decreto che annualmente stabilisce i contingenti ammessi), giungendo a collocarsi, all’inizio del millennio, tra i primi importatori ufficiali di manodopera al mondo. Paradigmatico perché, ancor prima del quasi azzeramento delle quote di lavoratori non stagionali (tra il 2012 e il 2020), il modello di regolazione disegnato dal legislatore (e l’applicazione che ne è stata fatta) aveva mostrato tutti i segnali di un sostanziale fallimento. In particolare, esso ha disatteso sia l’obiettivo di garantire un flusso regolare e ordinato di lavoratori in risposta ai fabbisogni occupazionali, sia quello di ridurre la pressione migratoria irregolare, sia ancora l’obiettivo di premiare la scelta di un canale legale (poiché le quote sono servite per lo più a regolarizzare la posizione di coloro che già soggiornavano in Italia, talvolta attraverso la vergognosa “vendita” di contratti di lavoro fittizi), così concorrendo alla definitiva delegittimazione del quadro normativo.

Al di là di scelte discutibili (come abolire la possibilità di ingresso per ricerca di lavoro, inizialmente prevista dal Testo Unico sull’immigrazione), alcuni fattori di contesto hanno sicuramente concorso a vanificare gli obiettivi delle politiche migratorie, piegandole a scopi indesiderati o addirittura illegali. Tra di essi l’inefficienza delle burocrazie pubbliche, l’inoperatività della rete dei centri per l’impiego, l’atavica diffusione dell’economia sommersa: altrettante debolezze del sistema Italia che nessuna politica migratoria può da sola correggere o neutralizzare. Peraltro, l’esperienza internazionale insegna che le politiche per la gestione delle migrazioni sono ad alto rischio di insuccesso: disfunzioni e fallimenti sono comuni anche ai Paesi che spesso prendiamo a modello, data la complessità della materia e la sua “insidiosità” dal punto di vista politico che incoraggia posizioni timide, strumentali, di corto respiro, ambivalenti se non addirittura ipocrite (come la “tolleranza” nei confronti di lavoratori formalmente non autorizzati a soggiornare).


A vanificare gli interventi spesso è stata l’inefficienza delle burocrazie pubbliche, l’inoperatività della rete dei centri per l’impiego, l’atavica diffusione dell’economia sommersa nel nostro Paese

Oggi, però, si sta facendo strada la consapevolezza dei costi di lungo periodo generati da politiche (e non politiche) che si limitano ad assecondare la richiesta di manodopera a buon mercato senza misurarsi coi temi dell’equità e della sostenibilità dei processi migratori. Costi che, nel caso italiano, dovrebbero apparire a tutti auto-evidenti e incoraggiare l’avvio di una nuova stagione nel governo delle migrazioni, che includa anche le necessarie modifiche alla legge vigente. In tale scenario, quanto abbiamo sopra osservato suggerisce l’opportunità di un approccio non ideologico, affrancato dalle strumentalizzazioni e dalle semplificazioni, di “buon senso”, basato sulla corresponsabilizzazione di tutti gli attori implicati e che sgombri innanzitutto il campo da alcune retoriche ricorrenti. Prendendo atto di come limitare le possibilità di migrare legalmente non serve – in assenza di altre leve – né a favorire l’inclusione lavorativa di inattivi e disoccupati, né a far crescere la produttività, né a contrastare la diffusione del lavoro irregolare o/e sottopagato (per certi versi, sembrerebbe accadere proprio il contrario). Ma anche rinunciando all’illusione che le politiche migratorie risolvano – da sole – criticità strutturali quali la fragilità demografica del Paese, i bassi tassi di attività e occupazione, le falle nei sistemi di conciliazione vita-lavoro e nelle risposte ai fabbisogni di cura e assistenza, i deficit nel presidio istituzionale dell’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, i salari troppo bassi in rapporto al costo della vita, lo scarso raccordo tra sistemi formativi e mercato occupazionale. L’immigrazione può certamente alleviare gli squilibri generati da alcuni di questi fenomeni (l’esperienza di questi anni ne fornisce ampia evidenza). Tuttavia, in mancanza di soluzioni durature a problemi di ordine strutturale, l’immigrazione – specie se mal gestita – può addirittura accentuarne la gravità: dati come l’altissima percentuale di famiglie immigrate povere confermano esattamente questo rischio.

Ma c’è di più. Proprio l’analisi dei percorsi di inclusione/esclusione occupazionale degli immigrati è prodiga di insegnamenti utili a cogliere i problemi da risolvere, le sfide da affrontare, le opportunità da mettere a valore attraverso provvedimenti e iniziative che, pur travalicando il campo delle politiche migratorie, si integrino con esse in maniera coerente per dar vita a modelli economico-sociali equi e sostenibili. Tale è la prospettiva che percorre l’intero Libro Bianco sul governo delle migrazioni, realizzato da Fondazione Ismu e pubblicato negli scorsi giorni. Frutto di un ampio processo di consultazione degli stakeholder dell’economia e della società, esso vuole costituire una piattaforma di discussione per le forze politiche e sociali, contribuendo alla costruzione di soluzioni capaci di rispondere ai bisogni della società e dell’economia, tutelare i diritti dei migranti (e di tutti i lavoratori) insieme alle esigenze di sviluppo dei Paesi d’origine, assicurare la sostenibilità dei processi migratori e di integrazione.

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