La sentenza sul killer di Utoya: il buon diritto e la giusta pena
sabato 23 giugno 2018

Fjotolf Hansen? È difficile che il nome dica qualcosa, qui in Italia. Va perciò chiarito che quella non è altro se non la nuova identità assunta da Anders Behring Breivik, il responsabile di due orrende stragi che il 22 luglio 2011 provocarono la morte di 77 persone, 69 delle quali erano giovani membri del partito laburista norvegese, riuniti in un pacifico meeting sull’isola di Utoya, vicino a Oslo.

Per quel crimine sta scontando una pena fissata originariamente in 21 anni di prigione, ma la cui durata potrà essere prolungata se al termine di questo periodo il condannato sarà giudicato ancora pericoloso (in Norvegia non esiste l’ergastolo).

Era tornato sotto i riflettori della cronaca due anni or sono perché un tribunale del suo Paese aveva sentenziato che le condizioni della detenzione cui era stato sottoposto – un regime di 'massima sicurezza', con isolamento da contatti con altri reclusi – avrebbero violato l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani, dove, insieme alla tortura, sono vietate le pene «inumane o degradanti».

Sull’appello del Governo, la Corte suprema del Paese scandinavo aveva però rovesciato questa conclusione, escludendo che, nella specie, fosse stata violata una norma di tutela di un diritto fondamentale.

Qualche giorno fa è stata depositata una decisione della Corte europea di Strasburgo, alla quale Hansen-Breivik aveva fatto ricorso per cercare di ribaltare il giudizio emesso sulla questione dal massimo organo di giustizia del suo Paese. E pure qui il verdetto, unanime, non lascia spazio a dubbi: manifesta infondatezza delle doglianze da lui avanzate chiamando in causa, anche in quella sede, l’art. 3 oltre all’art. 8 della stessa Convenzione (sotto il profilo della tutela della sua vita privata).

Non si creda però che la Corte europea abbia liquidato il 'caso' nel modo apparentemente più semplice: quasi, cioè, che l’enorme gravità del crimine giustificasse qualsiasi modalità di esecuzione – fosse pure la più spietata – della pena (secondo la logica del 'devono marcire senza pietà', che in tutto il mondo, e anche in Italia, sta tornando tanto di moda, magari con applicazioni diversificate a seconda della maggiore o minore vicinanza ideologica, politica o etnica tra chi formula auspici del genere e chi ne è oggetto).

No: la pronuncia ribadisce invece che «anche nelle circostanze più difficili, come quando si tratta di lottare contro il terrorismo [...], la Convenzione proibisce in termini assoluti la tortura e i trattamenti o le punizioni inumane o degradanti», fermo restando, tuttavia, che per essere considerata inumana la condizione del recluso deve «raggiungere un livello minimo di severità».

Ma quali erano, in concreto, le condizioni detentive che Breivik definiva 'inumane'? Le ricaviamo dall’accurata descrizione che ne fa la stessa Corte europea. Innegabile, certo, il parziale isolamento: e – è sempre la Corte ad ammonire – una situazione del genere non potrebbe prolungarsi indefinitamente senza controlli dell’autorità giudiziaria, che peraltro risultano esserci stati. Innegabili, altresì, le perquisizioni e le ispezioni più volte effettuate sulla persona del detenuto, così come le limitazioni alla libertà di corrispondenza e di conversazione telefonica, attuate mediante strumenti di monitoraggio: misure, a loro volta, ampiamente motivate dalla persistenza del detenuto stesso nel perseguire propositi in linea con il programma ispirato alla mistica nazista e al mito di Odino, e purtroppo già tradotto concretamente nelle stragi perpetrate.

Tutta una serie di attenuazioni della durezza di quella condizione risultano per contro essere state adottate: il condannato fruiva di tre distinti locali, avendo a disposizione, tra l’altro, oltre al necessario per l’igiene personale, un frigorifero, un apparecchio televisivo e un giornale quotidiano, un’attrezzatura per esercizi ginnici, una console per videogiochi...

Fuori luogo qualunque commento ironico da parte di chi goda comunque della normale libertà (forse più amari, i commenti di detenuti in qualche carcere nostrano, 'ordinario' o 'speciale'...). Ma quella descrizione non evidenzia soltanto lo scrupolo dimostrato, per l’occasione, dalla Corte europea nel prendere seriamente in considerazione il 'caso', sottolineando l’adeguatezza del bilanciamento di esigenze operato dalle autorità norvegesi. Getta anche un fascio di gelida luce sulle allucinanti contraddizioni che possono albergare in un animo imbevuto di una megalomania che, dopo aver armato la mano pluriomicida in nome di un razzismo spregiatore degli 'inferiori', pretende per sé un’applicazione particolarmente favorevole di quei diritti fondamentali, negati, disprezzati e irrisi nella loro universalità.

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