martedì 28 aprile 2015
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La straordinaria accelerazione delle migrazioni umanitarie è certamente da ascrivere a una situazione eccezionale, che ha visto l’incredibile proliferazione di tensioni e conflitti ai confini dell’Europa. Ma ancor prima che il quadro internazionale evolvesse in modi così tragici, il fenomeno della mobilità forzata appariva destinato a diventare uno dei principali drammi contemporanei. Profughi internati nei campi in condizioni di profondo degrado fisico e morale, donne e minori destinati allo sfruttamento sessuale, uomini sottoposti a regimi di lavoro forzato del tutto simili allo schiavismo, fino ai bambini soldato sono alcuni dei volti, diversi ma ugualmente turpi, di un fenomeno che si sviluppa violando in modo sempre più spietato il principio della dignità di ogni persona, al cuore non solo del cristianesimo, ma della stessa civiltà europea. L’incremento dei migranti forzati è da un lato l’esito della progressiva inclusione nel sistema di protezione di nuove figure, diverse da quella convenzionale del rifugiato; paradossalmente, però, è proprio tale estensione a rendere decisamente lacunosi gli strumenti per prevenire il fenomeno e proteggere le vittime. Migranti forzati e richiedenti asilo somigliano sempre meno all’archetipo cui s’ispira la Convenzione di Ginevra, il dissidente politico perseguitato dalle autorità del suo Paese.   La migrazione forzata ha oggi di norma una configurazione collettiva, non individuale, e riflette l’esigenza di sottrarsi da situazioni di crisi dall’evoluzione imprevedibile, con la conseguente difficoltà per gli Stati di controllare gli ingressi e valutare le istanze di protezione. La minaccia da cui si fugge non è più, necessariamente, lo Stato, ma può consistere in un soggetto privato e perfino in un membro della famiglia, circostanza che rende molto più complessa l’istruttoria delle domande e più facili gli abusi. I timori di persecuzione non concernono soltanto l’imprigionamento, ma la più ampia sfera dei diritti umani - per esempio la paura di subire la sterilizzazione o l’escissione, l’oppressione degli omosessuali, la sopravvivenza minacciata da catastrofi ambientali anche solo annunciate -, prefigurando situazioni in cui è sempre più difficile stabilire chi davvero merita protezione. La 'fuga' non necessariamente approda a un territorio straniero, ma è spesso destinata ad arrestarsi in un campo profughi in cui si sarà costretti a vivere in cattività, in antitesi a quell’anelito di libertà che un tempo segnava il tragitto dei migranti per ragioni umanitarie. La migrazione è a volte non solo forzata, ma addirittura coatta, realizzata attraverso varie modalità di tratta e riduzione in schiavitù. Inoltre, i sistemi di protezione sono stati costruiti in ottemperanza a un modello maschile, risultando inadeguati a rispondere ai bisogni e ai rischi specifici della componente femminile.   Infine, è la stessa accessibilità dell’opzione migratoria, oggi più facile rispetto al passato, a concorrere alla crescita del numero di persone che fanno appello a ragioni di carattere umanitario per sfuggire da situazioni di disagio economico e incertezza: un fenomeno che rende il confine tra migrazioni volontarie e forzate sempre più poroso, e che alimenta la convinzione che molti - troppi - facciano un ricorso improprio ai dispositivi di protezione. L’emergenza di questi giorni esige certamente risposte immediate, che almeno riducano il numero di quanti perdono la vita sulle rotte della speranza, o della disperazione. Ma uno sguardo proiettato al futuro e alle esigenze di sostenibilità del sistema internazionale di protezione non può esimersi dal prefiggersi una progressiva riduzione del volume dei richiedenti asilo.   Un obiettivo che può essere raggiunto solo attivando diversi livelli di responsabilità. Quello certamente della comunità internazionale, chiamata a ideare nuovi strumenti di protezione e d’intervento, ma prima ancora a risolvere gli squilibri di una globalizzazione senza regole. Quello delle autorità nazionali dei paesi di destinazione, sollecitate ad adottare politiche migratorie più coerenti con l’attuale realtà d’interdipendenza delle economie nazionali.  Quello delle autorità dei paesi d’origine, silenti spettatrici – o addirittura complici – dei traffici di persone e soprattutto incapaci di offrire valide alternative alla migrazione, così ledendo il fondamentale diritto a non emigrare. E, ancora, le responsabilità della società civile nelle sue espressioni organizzate che, svincolate dalle incrostazioni nazionalistiche che imbrigliano l’azione dei governi, possono svolgere un ruolo strategico nella governance della mobilità umana, nel solco di alcune interessanti esperienze già avviate (come le iniziative per il contrasto della tratta implementate grazie alla collaborazione delle diocesi dei luoghi di partenza e di arrivo). Infine, la responsabilità dei singoli e delle famiglie coinvolti nei processi migratori, spesso schiavi di modelli di comportamento e spinte all’emulazione che fanno apparire l’emigrazione una soluzione desiderabile indipendentemente dal suo 'prezzo' e dalle sue conseguenze.   In particolare, a essere chiamata in causa è la responsabilità di coloro che utilizzano in maniera impropria e strumentale la richiesta di protezione umanitaria, e di quanti, assecondando per ragioni più o meno nobili tale comportamento, sottraggono risorse e legittimazione a un istituto che rischia di risultare inoperante proprio per i soggetti che più di tutti avrebbero bisogno di essere tutelati e protetti.  Indubbiamente – le vicende di questi mesi lo confermano in maniera drammatica –, al di là dei possibili interventi politici e giuridici, è l’architrave stessa del sistema di governo delle migrazioni ad accusare i limiti di un assetto 'Statocentrico' a fronte di fenomeni che, per loro natura, trascendono i confini delle nazioni. I migranti umanitari sono così i testimoni viventi delle aporie di sistemi di protezione dei poveri e dei vulnerabili fondati sulla finzione di società perimetrate dai recinti nazionali e perciò incapaci di rispondere alle istanze di appartenenza e giustizia nell’attuale società globale. Ma proprio ciò li rende una presenza preziosa - o addirittura profetica - per riflettere sul futuro delle nostre democrazie, abituate a dare per scontati istituti come la cittadinanza e i diritti che essa garantisce, a partire dall’esercizio delle libertà democratiche. Così come le comunità cristiane dovrebbero imparare a vedere nei migranti umanitari – specie quelli per motivi religiosi – non solo dei destinatari privilegiati di cure, ma veri operatori di testimonianza ed evangelizzazione, che sollecitano le Chiese locali ad acquisire una mentalità più universale, più 'cattolica'.   Resta il fatto che, nella gestione delle richieste di protezione, l’Italia e l’Europa mettono alla prova la loro civiltà giuridica, la loro identità. Parafrasando il testo biblico, non si deve rischiare di sopprimere il giusto insieme all’empio, poiché un giudice giusto non può indulgere a una giustizia sommaria (Genesi, 18).  Valutazioni di ordine economico e sicuritario non possono giustificare la rinuncia ai principi sui quali si fondano le nostre democrazie, che occorre proteggere da ogni rischio di imbarbarimento. Le politiche per la protezione umanitaria rappresentano anzi uno strumento con cui affermare i valori sui quali si fonda la convivenza e che meritano di essere lasciati in dote alle future generazioni. *Ordinario di sociologia delle migrazioni all’Università Cattolica di Milano © RIPRODUZIONE RISERVATA
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