giovedì 23 aprile 2015
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Sulla morte in mare, provocata da esseri umani ad altri esseri umani, c’è una terribile scena nel film "Amistad" (1997) di Steven Spielberg. Ambientato nel 1839, esso narra l’ammutinamento di schiavi catturati in Africa e deportati in America dagli spagnoli in condizioni disumane sulla nave "Amistad", della quale, uccidendo i negrieri e i membri dell’equipaggio, prendono a un certo punto il controllo, senza saperla tuttavia governare, per cui vengono ricatturati dagli americani al largo delle coste statunitensi, imprigionati e processati. La terribile scena che provoca la rivolta è quella in cui il capo dei negrieri spagnoli si accorge che i viveri non bastano per tutti gli schiavi stivati sull’Amistad, per cui ne butta a mare alcune decine: quelli che hanno meno valore, i malati, le donne gravide, i feriti, i meno vendibili. Con questi atroci flash back, il film di Spielberg si svolge per tutta la sua durata come un legal thriller imperniato sul processo.Siamo un quarto di secolo prima della guerra di secessione e dell’abolizione della schiavitù negli Usa, per cui il grido della verità, l’urlo della giustizia di questi infelici deve emergere attraverso le asfissianti pastoie processuali e l’ambiguità di una legge americana che contempla la schiavitù negli stessi Stati del Sud, legittimandone la pratica. È anche un processo di diritto internazionale, che vede contrapposta agli Stati Uniti la Corona di Spagna proprietaria della nave col suo carico; gli spagnoli producono documenti, ancorché falsificati, sul carico; protestano di aver titolo legale per reclamarlo. Gli ammutinati non hanno alcunché da produrre. Sono merce umana senza contrassegno – senza status, diremmo oggi – che li qualifichi come deprivati a forza della libertà. Il film si conclude con un colpo di scena in cui la prova d’essere stati ridotti in schiavitù è acquisita e i superstiti vengono riportati in Africa quali uomini liberi.Richiamare un film a proposito della più grande tragedia del Mediterraneo occorsa in questi giorni, col suo spaventoso tributo in vite umane, non deve sembrare espressione di lontananza dalla tragedia. Troppo straziati e potenti sono i parallelismi e le metafore che si liberano dal confronto tra fiction e realtà, con la sola differenza che qui la realtà, due secoli dopo, si è rivelata molto più tragica della fiction. Da tempo è stato il Papa a riportare al tema della schiavitù, né diversamente potrebbe chiamarsi, la condizione di questi infelici, spinti in acqua da negrieri del XXI secolo, da scafisti criminali su carrette allontanate dalla costa in attesa di essere raccolte. Morire rappresenta dunque per gli imbarcati un rischio accettato, in questo criminale contratto, per la mera speranza della ricerca di una vita, di una libertà, di una felicità. Ed è struggente che papa Francesco abbia usato per loro, nell’Angelus di domenica, quest’ultima precisa locuzione (presente anche nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense del 1776), the pursuit of happiness, la ricerca della felicità: non solo della sopravvivenza.Ha usato, Francesco, un concetto più che laico, eversivo e potentemente rivendicativo del diritto naturale di ogni creatura umana a essere felice. Perché? Perché per i credenti il Creatore stesso è il fondamento di ogni aspirazione alla felicità, nella sua più lata accezione. È il Dio che non richiede documenti e accordi tra le nazioni, per il riconoscimento dello status di uomo, e del suo inalienabile diritto alla vita, alla libertà e alla gioia. È anche il Dio di altre icone: è il Salvatore, è il Cristo che tende il braccio a Pietro, avventuratosi a camminare sulle acque, quando comincia ad affondare. Ma questa è un’altra storia, di invocazione de profundis, di esaudimento del grido di salvezza della creatura da parte del Creatore e di sua acquisizione a una definitiva felicità, che nessun film potrà mai raccontare.
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