martedì 4 ottobre 2011
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La protesta inscenata negli Stati Uniti dal movimento che si pone come obiettivo l’occupazione di Wall Street è stata da più parti associata alle rivolte nel mondo arabo o alle manifestazioni degli indignados spagnoli. Come se Oriente e Occidente fossero in un certo modo uniti nella sofferenza e nell’inquietudine di una larga fetta dell’universo giovanile, una generazione globale che si percepisce a vario titolo defraudata della libertà o del futuro, e che per questo è pronta ad alzare forte il tono della protesta. Gli stessi attivisti americani che hanno invaso il ponte di Brooklyn citano gli altri movimenti come una fonte di ispirazione ed è innegabile che le analogie siano molte e per vari aspetti suggestive.Se il collegamento con la primavera araba viaggia piuttosto sui binari dell’emotività o delle connessioni alla Rete, quello tra le manifestazioni occidentali ha probabilmente molti più punti in comune, anche se il contesto storico, economico e sociale statunitense ha ben poco da condividere con la dimensione europea e con la tradizione del suo welfare, statale o familiare che sia. Tra i momenti di contatto si possono includere anche molti fattori di preoccupazione: il rischio che una protesta spontanea e genuina, nei modi come nelle ragioni, finisca per essere fagocitata da altre motivazioni e da interessi esterni; o che non si stia assistendo all’emergere di un movimento di delusione e di proposta, quanto piuttosto alla rinascita di un nuovo antagonismo. D’altra parte, l’assenza di rivendicazioni precise e circostanziate è una costante delle "rivolte" occidentali, quasi che la potenza comunicativa e aggregante di Internet finisse per diluire e annacquare la capacità di analisi e di costruzione di un progetto, amplificando il vuoto di senso.Capire se si tratti di focolai isolati o della punta di un iceberg non è facile, per questo è utile aggrapparsi agli indizi. E nel movimento statunitense ve n’è uno che, simbolicamente, più di altri sembra utile e illuminante: la distanza, culturale e materiale, tra il sentire dei giovani con meno di 35 anni e le logiche della Borsa e del mercato. Senza voler cadere in facili generalizzazioni, è un fatto che chi è venuto al mondo prima del 1980 ha conosciuto la Borsa come un luogo nel quale, con un approccio arrembante si potevano tentare rischiose speculazioni appagando l’istinto della propria avidità rischiando in prima persona, ma con buone intenzioni si poteva investire una parte dei risparmi familiari cercando di pianificare il futuro.Eccessi a parte, il "mercato" era comunque in grado di rappresentare un fattore di sviluppo. All’opposto, chi nella stagione degli yuppie giocava ancora con le bolle di sapone è diventato maggiorenne nell’età in cui il mercato ha incominciato ad alimentare quelle bolle finanziarie (della new economy, dei mutui e dei prezzi immobiliari, dei debiti sovrani) che sono all’origine di gran parte dei mali economici dell’occidente e delle ansie della generazione degli "under 35".Il "mercato", da luogo temuto e rispettato con ricadute locali, è diventato sinonimo di speculazione, fonte di problemi e disuguaglianze globali. Una distanza culturale che è anche economica: perché avere ridotte possibilità di lavoro e limitate capacità di risparmio e di credito, condizione che accomuna oggi sempre più ragazzi, comporta che vi sono zero margini per ragionare in termini di investimenti, come hanno potuto fare i loro padri o i loro fratelli maggiori.Al di là delle pericolose derive che un fenomeno di protesta può purtroppo conoscere, è utile tenere presente che questa generazione di anti-yuppie e di "borseggiati" è separata da un solco profondissimo, non solo esistenziale, ma anche materiale, dal modo di pensare e intendere la finanza da parte degli "adulti". L’avidità di denaro sta lasciando il posto a una veemente sete di futuro. Indirizzare in senso (pro)positivo queste istanze è una delle sfide cruciali a cui è bene, sulle due sponde dell’Atlantico, riuscire a dare risposta.
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