L'Europa e il "bullismo" di Ankara
sabato 12 ottobre 2019

Il balbettio della cosiddetta comunità internazionale sull’invasione militare della Siria settentrionale da parte della Turchia è l’ennesimo atto di abdicazione rispetto alla possibilità di limitare l’anarchia attraverso il ricorso alle istituzioni internazionali. Attesta che dell’edificio per quanto incerto di un ordine fondato anche sul diritto resta in piedi sempre meno. La brutalità degli interessi nazionali, peraltro nella loro più cinica, miope ed egoistica declinazione, è la vera protagonista di queste ore. In particolare, per ciò che riguarda l’Occidente, questo nuovo plateale tradimento dei princìpi e dei valori al rispetto dei quali amiamo richiamare solertemente gli altri, e ai quali sempre meno si ispira la nostra condotta, rende sempre più pretestuosa qualunque residua pretesa di una leadership morale delle democrazie.

Il discorso è particolarmente penoso per i Paesi membri dell’Unione e per l’Unione Europea nel suo complesso. La pretesa di una Ue "potenza civile" in grado di fornire attraverso la sua politica estera una guida e un’ispirazione, innanzitutto al suo vicinato, è sempre più una illusione. Eppure, noi più di chiunque altri al mondo saremmo direttamente interessati alla credibilità di un ordine internazionale nel quale la legge della giungla sia attenuata da prassi e princìpi alternativi, da quella governance globale fondata sulla progressiva internazionalizzazione della rule of law (principio di legalità), la cui faticosa tenuta diventerà sempre più cruciale e insieme incerta a mano a mano che il peso politico, economico e militare delle democrazie occidentali si riduce a vantaggio degli autoritarismi.

Ma l’Europa ha fatto di tutto per distruggere in questi anni ogni presupposto di una sua propria specificità, fallendo miseramente nel costituire quel ring of friends (anello di amici) che le sue politiche di vicinato orientale e meridionale si proponevano di realizzare. Ad acuire la pochezza dei risultati conseguiti verso i Paesi e i popoli più prossimi ha pensato poi la penosa gestione dei flussi migratori, in parte anche generati dai fallimenti delle politiche europee verso il Mediterraneo.

La logica della fortezza europea assediata "dall’invasione" di popoli in fuga perché senza più altre speranze non è stata solo protagonista della stagione di Salvini, ministro dell’Interno. È penetrata per anni nel discorso politico europeo, ha alimentato scelte disumane, persino in contrasto con il diritto d’asilo nei confronti dei perseguitati, caposaldo di qualunque idea di civiltà giuridica. Angela Merkel che qualcuno aveva proposto per il premio Nobel per la pace è la stessa che, una volta proclamato «l’apertura delle frontiere tedesche ai rifugiati siriani», volò da Erdogan per stipulare quell’accordo più che discutibile – voi tenete i siriani, noi paghiamo e voltiamo la testa dall’altra parte – poi ratificato dall’Unione e che oggi è la principale arma di ricatto del nuovo sultano. La nostra attuale debolezza di fronte all’arroganza di Erdogan è frutto del mostro che ci siamo costruiti noi stessi: la fantomatica minaccia delle migrazioni alla sicurezza e al benessere d’Europa, oltretutto una sicurezza e un benessere sempre più relativi, diseguali, fragili.

Questa drammatica crisi, il cinismo con cui il sanguinario "bullo" di Ankara sfrutta le paure europee, i timori della Nato di vederla definitivamente riallineata rispetto a Mosca, le preoccupazioni russe affinché un simile passaggio si compia, la solita latitanza cinese e l’irresponsabile, plateale ignoranza e confusione mentale del presidente degli Stati Uniti (oltre ai colpi di mazza che continua a menare contro i residui del multilateralismo) offrono però ancora un’ultima chance all’Europa.

Quella di assumersi le proprie responsabilità di fronte a una tragedia che ha contribuito a rafforzare con la sua ignavia e di adottare immediate e dolorose sanzioni nei confronti della Turchia, di proclamare un altrettanto subitaneo e totale embargo sulla consegna di qualunque materiale bellico o utilizzabile a scopo bellico che dal territorio dell’Unione sia destinato ad Ankara (a prescindere dalla sua origine), di chiedere una nuova riunione del Consiglio di Sicurezza in cui ottenere una Risoluzione di condanna della Turchia ed eventualmente costringere Stati Uniti, Russia o Cina a opporre il proprio veto a se ne avranno il coraggio, di annunciare alla Nato la decisione di ritirare qualunque reparto militare europeo sia di stanza in Turchia. Non saranno scelte senza costi, ma l’inazione avrebbe un costo molto più alto.

E se non siamo disposti a correre rischi e ad assumerci responsabilità di fronte alla pulizia etnica, al massacro del popolo curdo, che per bloccare il Daesh ha offerto le vite dei suoi figli e delle sue figlie, all’impiego di milioni di profughi come merce di scambio e scudi umani, al risorgere dello stesso califfato e al trionfo del cinismo su qualunque principio di umanità, chiediamoci quale futuro e quale mondo vogliamo lasciare in eredità ai nostri figli e alle nostre figlie.

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