Ciò che resta dei quesiti sul lavoro
giovedì 12 gennaio 2017

Quasi fossero artificieri, è toccato ai giudici della Corte costituzionale cominciare ieri a disinnescare quella sorta di «bomba a grappolo» costituita dai referendum abrogativi presentati dalla Cgil. Iniziativa che rischiava non solo di minare ciò che resta della legislatura e la vita del nuovo governo, con ciò che questo avrebbe comportato per le prospettive del Paese, ma soprattutto di far voltare ancora una volta all’indietro il dibattito politico sul tema centrale del lavoro. Riportandolo agli anni 70 del secolo scorso, in un eterno ritornare a un passato mitizzato, anziché provare a misurarsi con la grande trasformazione che già investe le nostre società e chiede risposte e modelli nuovi.


La decisione di non ammettere il quesito sui licenziamenti illegittimi e dare via libera invece a quelli sui voucher e la responsabilità delle aziende appaltanti, infatti, ha soprattutto questa implicazione. Sul piano tecnico – in attesa di leggere le motivazioni della scelta della Consulta – si può intuire che i giudici abbiano ritenuto fondate le ragioni dell’Avvocatura dello Stato, e di alcuni giuslavoristi, secondo cui il quesito relativo alle forme di tutela conseguenti a un licenziamento senza giusta causa fosse "manipolativo" e di fatto "propositivo" perché non si limitava a cancellare quanto previsto dal Jobs Act con la previsione di un risarcimento al posto del reintegro nel posto di lavoro, ma interveniva in maniera selettiva sullo stesso Statuto dei lavoratori, introducendo una nuova disciplina per tutte le aziende, addirittura sopra i 5 dipendenti e non più 15, come nella legge del 1970. E se si ha la pazienza di leggere per intero il testo della lunga domanda che secondo la Cgil sarebbe dovuta apparire sulla scheda referendaria è difficile ravvisarvi quei caratteri di chiarezza, omogeneità e univocità che la legge prescrive per le consultazioni abrogative.

Tanto da far pensare (ne abbiamo già accennato su Avvenire) a una mossa suicida da parte della Cgil, o quantomeno a un azzardo strumentale, dopo il fallimento di un’analoga consultazione nel giugno 2003 per mancanza del quorum di votanti.
Nel merito, il rischio era appunto quello di disfare per l’ennesima volta, come la tela di Penelope, quella trama di cambiamenti che – dalla riforma Fornero al Jobs Act – hanno provato a svecchiare alcune rigide tutele introducendone di nuove e più flessibili per i lavoratori, adatte a un mercato del lavoro in evoluzione. E questo prima ancora che le reali conseguenze di quelle stesse riforme siano conosciute e misurate, ma per un contrasto meramente ideologico.


La stessa ideologia che, purtroppo, caratterizza l’approccio a un altro quesito – questo sì ammesso – relativo ai buoni lavoro. Strumento utile ma purtroppo "strumentalizzato", se ci è consentito il gioco di parole, dall’uso distorto da parte delle imprese, a sua volta favorito dai cambiamenti normativi succedutisi negli ultimi anni. In un’eterogenesi dei fini, da mezzo di contrasto al lavoro nero, i voucher sono diventati in buona misura la "pezza di copertura" per attività semi-sommerse o hanno finito per sostituire altre tipologie di rapporti come i contratti a termine e di somministrazione. Un fenomeno esploso ben oltre l’immaginabile, che coinvolge oggi 1,4 milioni di lavoratori.

È vero che, sul piano del monte ore e del costo lavoro complessivi, si tratta di una quota inferiore all’1% e dunque marginale, ma l’impatto simbolico e quanto questo uso lascia prefigurare in termini di sostituzione di contratti strutturati con semplici buoni giustificano un serio intervento correttivo. Non un’abrogazione secca e totale – come chiesto nel referendum – che provocherebbe un vuoto normativo e lascerebbe il "nero" senza alternative in tante piccole attività appunto «occasionali e accessorie» (come ha ben evidenziato il professor Vincenzo Ferrante ieri).

Occorre dunque un’intelligente revisione della questione in sede parlamentare, senza caricare il tema di eccessi del tutto ingiustificati – «i voucher sono come i pizzini della mafia», è arrivata a dichiarare la leader della Cgil, nonostante l’uso non sporadico che lo stesso sindacato ne ha fatto, appunto per le attività occasionali – ma impegnandosi a riportarli alla loro funzione originaria. Le forze politiche hanno l’occasione e la responsabilità di disinnescare pure quest’altro piccolo 'ordigno', così come è possibile trovare un nuovo equilibrio tra esigenze delle imprese e dei lavoratori, per meglio tutelare questi ultimi nei passaggi tra appaltante e appaltatrice, in un segmento in cui effettivamente non mancano abusi e difficoltà. Scampato il pericolo di tornare a guardare al passato, le sfide poste dall’innovazione tecnologica, dalle infinite possibilità della Rete e dall’automazione in un mercato del lavoro che si va atomizzando e polarizzando tra alte professioni e 'lavoretti', chiedono anzitutto di non riporre più fideisticamente nella rigidità della legge le speranze di tutela dei lavoratori. Per non condannarli a un eterno e improduttivo déjà-vu.

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