domenica 8 novembre 2015
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La morte di Dall’Oglio, protagonista del laicato cattolico Caro direttore, lascia che sia io, fosse solo per ragioni anagrafiche, a ricordare ai lettori di “Avvenire” la figura di Cesare Dall’Oglio, venuto a mancare il 6 novembre dopo una lunga invalidità che lo aveva privato del dono della lucidità che ne aveva segnato l’intera esistenza. E accanto alla lucidità, che gli permetteva di leggere i “segni dei tempi” sia nella società sia nella Chiesa, il rispetto per gli altri nel presentare con chiarezza ed autenticità il proprio punto di vista.  Il nome di Cesare Dall’Oglio si incontra subito nella cronache del secondo dopoguerra prima come esponente dei giovani democristiani e poi come componente della Direzione della Dc, con segretario Paolo Emilio Taviani e in compagnia di altri esponenti che giungeranno ai vertici del potere, spesso con tutte le vischiosità della politica. Lui scelse invece di fare politica in altro modo dedicandosi alla organizzazione della Coldiretti, di cui fu per lungo tempo l’insostituibile segretario generale. L’organizzazione dei contadini cristiani guidata da Paolo Bonomi attraversò, come è noto, complesse vicissitudini, tra il politico e l’economico. Anche le organizzazioni consorelle – posso dirlo con riferimento alle Acli – si trovarono spesso in dissenso con la “bonomiana”. Ma anche in tali situazioni Dall’Oglio era considerato un riferimento sicuro con cui mantenere il collegamento, si trattasse di organizzare insieme la Festa del Ringraziamento o di andare nelle piazze a sostenere la riforma agraria contro gli attacchi delle destre, quella cattolica inclusa. Consultando Dall’Oglio, ci si imbatteva in un conoscitore inarrivabile degli insegnamenti della Chiesa in campo sociale sia nella loro stabilità sia nella loro evoluzione, a partire dalla Mater et magistra di Giovanni XXIII nella quale, in compagnia di monsignor Pietro Pavan, egli vedeva il nucleo di quella che sarebbe stata l’innovazione conciliare. Nel 1975-76 facemmo insieme l’esperienza del Comitato preparatorio del convegno della Cei su Evangelizzazione e promozione umana che in un momento difficile della società italiana tentò di guardare senza diffidenza alla prospettiva dell’unità nella fede nella pluralità delle scelte politiche dei credenti. E posso testimoniare che Cesare non era secondo a nessuno nell’esporre l’esigenza di esplorare tali itinerari superando quella che Giuseppe Lazzati chiamava «l’inutile paura del nuovo».  Nel clima di approssimazione e genericità in cui viviamo, Cesare Dall’Oglio si poneva decisamente in controtendenza. Sempre documentato e sempre aggiornato, sia per l’attualità sia per la dottrina. E ciò indipendentemente dalle occasioni, si trattasse di un convegno di alto livello o del giornalino della parrocchia romana della Santissima Trinità a Villa Chigi, dove finché ha potuto, ha partecipato attivamente a ogni iniziativa. L’altra dimensione di Cesare era quella della vita familiare. Oltre sessant’anni di matrimonio celebrati in affettuosa serenità con una folla (è il caso di dirlo) di figli e nipoti attorno a lui e alla signora Donatella. Gli stessi che ora si accingono a salutarlo mentre la sua vita “non è tolta ma si trasforma”. Tutti meno uno, Paolo, la cui sorte in Siria resta ancora drammaticamente incerta.
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