mercoledì 15 agosto 2018
Quell’elegante gigantesca passerella gettata sulla valle del Polcevera era condannata a non poter reggere da sola l’offensiva dei giganti della strada...
Grandi buone opere: eppure si deve
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Cosa abbia determinato il crollo del viadotto Morandi sul Polcevera, quali fattori siano intervenuti a far collassare la campata e il pilone centrale una struttura ardita che al momento della realizzazione (era il 1967) si era meritata il blasone di opera tecnicamente all’avanguardia, è materia per le commissioni d’inchiesta che saranno messe in campo. Gli interrogativi sono tanti, le risposte probabilmente non saranno univoche, come quasi sempre in questi casi.

Nel tragico Ferragosto di Genova e della Liguria le riflessioni da fare a caldo non possono prescindere dall’esame di alcuni elementi. Il primo è l’età stessa del manufatto, 50 anni, un’età critica per il cemento armato che non è né eterno né indistruttibile e che con il trascorrere del tempo è soggetto a fenomeni di disgregazione. A questo si deve ovviare con una cura continua, una manutenzione attenta e rigorosa, cose che ci dicono essere state fatte, e al momento non c’è motivo di dubitare delle assicurazioni dell’ente concessionario, la Società Autostrade. Ma il punto è un altro: fino a quando gli interventi di messa in sicurezza possono garantire solidità e tenuta di una struttura strallata sospesa ad una cinquantina di metri dal suolo e sottoposta da decenni allo stress di un traffico in costante crescita? Sul viadotto tra il levante e il ponente di Genova transitavano ormai 26 milioni di veicoli all’anno, un dato quadruplicato dal 1980 e segnato da un costante incremento dei mezzi pesanti, da e per la Francia; da e per il centro Italia, da e per il porto.

Non sappiamo se si debba parlare, come hanno già fatto alcuni, di tragedia annunciata, ma è certo che quell’elegante gigantesca passerella gettata sulla valle del Polcevera era condannata a non poter reggere da sola l’offensiva dei giganti della strada, sempre più mastodontici, sempre più pesanti. Il dibattito sul suo pensionamento, forse addirittura sulla sua demolizione, era uscito dalle segrete stanze degli addetti ai lavori diventando materia di pubblica discussione, perché non basta rafforzare gli stralli quando l’intera l’impalcatura vibra sotto bestioni di 44 tonnellate lanciati a ottanta, novanta chilometri all’ora.

Così come diventa economicamente folle destinare alla indispensabile manutenzione cifre che nel tempo eguagliano il costo del rifacimento dell’opera. E questo è l’altro punto. Il viadotto Morandi era stato concepito per interconnettere l’autostrada verso ovest ( Ventimiglia) con quelle verso est (La Spezia) e verso nord (Milano).Con il tempo è venuto ad assumere anche la funzione di tangenziale cittadina di una Genova che l’orografia condanna a essere schiacciata tra la montagna e il mare. Al traffico di lunga percorrenza si è sommato quello locale, l’uno e l’altro incanalati su quelle quattro corsie sospese nel vuoto. Fino a che la campata centrale non ha ceduto. «Serviva da tempo un’alternativa, un bypass, perché quella su cui insisteva il ponte era l’unica via tra l’est e l’ovest, tra la Francia e il centro Italia», sottolineano i vertici dell’Ordine degli ingegneri di Genova.

Ci voleva insomma un altro tracciato. Più esterno, meglio calibrato sui nuovi volumi di traffico. Realizzato il nuovo raccordo tra le tre autostrade, il manufatto dell’ingegner Riccardo Morandi poteva magari restare al suo posto come via di comunicazione cittadina per il solo traffico leggero, di modesto impatto sulle strutture portanti. Per quanto possa sembrare paradossale alla luce della tragedia di ieri, il progetto dell’alternativa esiste da tempo, arenato nei meandri della burocrazia e delle mancate scelte di chi amministra: è quello della cosiddetta gronda di ponente, un’autostrada destinata a collegare la A26 Voltri-Sempione con la A7 Milano-Genova, una piccola grande opera che permetterebbe a Genova e al suo porto di respirare e toglierebbe migliaia di veicoli dalla periferia cittadina. Solo che parlare di grandi opere (ancorché piccole come l’ipotizzata gronda, in realtà) è cosa che non gode oggi di buona stampa e rasenta il politicamente scorretto perché il clima politico ha virato in una certa direzione. E non importa che d’ora in avanti la Genova che piange decine di morti resti tagliata in due, per chissà quanto tempo.

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