venerdì 8 agosto 2014
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Il vertice Usa-Africa che si è svolto in questi giorni a Washington ha assunto una valenza geostrategica che non va sottovalutata. Anzitutto si è trattato di un summit in cui l’aspetto formale è stato curato nei minimi dettagli. Non solo per la coreografia, ma soprattutto per l’uso  politically correct  delle parole. Non vi sono stati, ad esempio, attacchi frontali al colonialismo cinese, in linea, peraltro, con quanto preannunciato dallo stesso Obama in un’intervista all’ Economist.«Più si è, meglio è» sui mercati africani, aveva affermato al settimanale britannico il numero uno della Casa Bianca, anche se poi, con le argomentazioni che ha svolto durante il summit, è stato chiaro a tutti che il «contenimento» del capitalismo cinese è una questione che va affrontata con perspicacia e a testa alta. Come? Anzitutto andando al di là del vecchio bilateralismo tanto caro ai predecessori di Barack Obama (Bill Clinton e George W. Bush). Nel linguaggio economico e diplomatico, il termine 'bilateralismo' indica l’attitudine a stabilire relazioni commerciali privilegiate con un altro Paese oppure con più Paesi presi singolarmente. Si tratta di un indirizzo che generalmente, nel vasto areopago delle relazioni internazionali, è considerato un ostacolo alla circolazione delle merci e allo sviluppo dei mercati ed è contrastato dagli accordi multilaterali sottoscritti nell’ambito delle organizzazioni mondiali. L’effetto di questo modo d’intendere le relazioni con i governi africani, da parte degli Usa e di altre nazioni, è stato quello di parcellizzare il continente in tante aree d’interesse strategico legate alle fonti energetiche e minerarie. Ecco perché bisogna riconoscere che sullo sfondo della geopolitica-economica obamiana, il valore aggiunto rispetto alle passate politiche della Casa Bianca e all’orientamento degli stessi cinesi sta nella volontà (almeno sul piano formale) di aiutare i Paesi africani a superare la loro dimensione nazionale creando mercati regionali con standard comuni. «Nel 2012 l’Africa ha attirato più di 50 miliardi di dollari in flussi di capitali», ha ricordato Obama durante il vertice, sottolineando che per continuare questo trend il continente «deve proseguire le riforme economiche» e stabilire «un clima d’investimento più ospitale e prevedibile». In questo contesto s’inserisce la lotta al terrorismo che rappresenta dal 2001 una priorità per gli Stati Uniti. Va ricordato, infatti che Africom, il Comando Africa del Pentagono creato da George W. Bush alla fine del 2007, ha tra l’alto lo scopo di contrastare l’influenza del salafismo nell’Africa Subsahariana. Una cosa è certa: da quando è presidente, Obama ha fatto ben poco per arginare la concorrenza cinese che, paradossalmente ha applicato alla lettera il teorema clintoniano  trade not aid  (commercio non aiuti). Ma se gli Usa intendono porre un freno alla colonizzazione dell’Africa messa in atto da Pechino – che ha una visione pragmatica e invasiva del business – devono giocare la partita sul duplice piano di una governance, non solo di stampo affaristico ma anche solidale nel promuovere quello che lo stesso Obama ha definito «il benessere del continente africano». Purtroppo, nell’agenda di questo presidente Usa, di origini afro, non sono affatto chiare le scelte attuative della sua politica nella lotta contro la povertà. Non basta parlare d’investimenti (ha promesso una trentina di miliardi ai governi africani) quando questi, paradossalmente, acuiscono il fenomeno del land-grabbing  (l’accaparramento, cioè, delle terre da parte delle multinazionali straniere) e la svendita delle commodities , le ambite ed essenziali materie prime (anche alimentari). Se le privatizzazioni in Africa seguiteranno di questo passo, escludendo il coinvolgimento diretto delle popolazioni locali dai benefici della crescita del ricchezza, il continente africano continuerà a essere una terra di conquista. Per questo motivo le parole di Obama vanno prese, davvero, col beneficio d’inventario.
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