venerdì 10 febbraio 2012
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​Che  cosa sta succedendo, in Parlamento, nella conversione del decreto legge noto come lo "svuotacarceri"? Vediamo con ordine. Il 22 dicembre il governo, per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri, vara un decreto che prevede che, in caso di arresto in flagranza per i reati di competenza del giudice monocratico (delitti non gravissimi, ma non sempre lievi: tra essi, lo spaccio di droga, i furti, le rapine e le estorsioni non aggravate) la polizia trattenga l’arrestato, per le prime 48 ore, nelle camere di sicurezza, in attesa del processo per direttissima. Sarà poi il giudice della direttissima a stabilire, in caso di condanna – valutando le varie circostanze, i precedenti, la reale gravità del fatto – se l’arrestato debba essere liberato oppure mandato in carcere. Si evita, in questo modo, il cosiddetto effetto "porte girevoli": far passare per il carcere le persone (più o meno, la metà degli arrestati) che, dopo il processo per direttissima, vengono scarcerate. Una norma, a nostro parere, buona: perché 48 ore in camera di sicurezza sono, per molti arrestati, meglio di 48 ore in carcere (soprattutto in carceri che scoppiano). Comunque, la decisione del giudice deve esser presa in tempi brevissimi. E non si dimentichi che, qualora il pubblico ministero ritenga che l’arrestato non debba rimanere detenuto, può liberarlo immediatamente. A questo punto, però, i sindacati della polizia hanno manifestato il loro malcontento: la riforma impone nuovi turni di servizio e distoglie poliziotti dal controllo del territorio; inoltre, secondo i sindacati, le camere di sicurezza non sono idonee (anche se, quando si è voluto, si sono approntate camere assolutamente adeguate e non peggiori delle celle del carcere).Si sa, la coperta è sempre corta. Il governo presta molta attenzione alle proteste dei sindacati. E così si introduce una modifica alla riforma: tranne che per lo scippo, il furto in casa, la rapina e l’estorsione, gli arrestati per reati di competenza monocratica (tra cui lo spaccio e tutti gli altri tipi di furto) devono essere collocati agli arresti domiciliari. Soltanto in caso di indisponibilità o inidoneità di un luogo adatto ai domiciliari, l’arrestato può essere trattenuto nelle camere di sicurezza, fino alla direttissima. Ecco un caso di ottimo principio che non riesce a coniugarsi con i dati della realtà.Il principio è ottimo: il luogo di detenzione deve essere adeguato alla gravità del fatto, partendo dalla detenzione meno afflittiva (i domiciliari). Ma l’esperienza quotidiana ci dice che oltre la metà degli arrestati per reati di strada sono cittadini stranieri che non esibiscono alcun documento di identità e non dichiarano le loro vere generalità. Come è possibile, per loro, pensare a una dimora che li ospiti per 48 ore fino alla direttissima? E se la si trova, è pensabile che queste persone, il giorno dopo l’arresto, si facciano trovare per recarsi al processo? È pensabile (starei per dire: possiamo pretendere) che lo spacciatore di droga dai mille nomi e dalla identità anagrafica evanescente se ne stia, buono e tranquillo, ad aspettare la polizia che lo accompagni davanti al giudice? È facilmente prevedibile che il processo verrebbe celebrato a un fantasma. E che direbbe, di tutto questo, l’abitante dei quartieri "caldi" delle nostre grandi città, vera vittima della "microcriminalità" e della nostra incapacità di dare risposte eque, pronte ed efficaci?Ancora una volta, torna alla mente l’astrattezza dei patrioti che Vincenzo Cuoco rimproverava ai giacobini napoletani del 1799: l’incapacità di misurare le belle parole dei propri ideali con le materiali condizioni di vita dei cittadini. L’astrattezza è un pericoloso nemico per tutti i governanti. Rischia d’essere pericolosissimo per un governo di professori che punta, giustamente, a fare della concretezza e dell’efficacia la propria bandiera. I termini per la conversione del decreto scadono il 20 febbraio. Un ragionevole ripristino in extremis del testo originario del provvedimento non è impossibile. È troppo tardi per tentare?
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